“Energie per l’Italia”: il nuovo centrodestra di Parisi che puzza di Ottocento [FOTO]

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Al centro Stefano Parisi

Milano, 17 set – “Oggi gettiamo le fondamenta di una nuova piattaforma di governo: una piattaforma liberale e popolare”. Queste, nel giorno di apertura dell’evento “Megawatt. Energie per l’Italia“, le parole di Stefano Parisi, candidato sindaco per il centrodestra alle ultime elezioni amministrative di Milano, sconfitto dal candidato Pd Giuseppe Sala. Scopo della convention, a sentire l’ex manager di Fastweb, è il non certo modesto tentativo di costruire una vera e propria proposta di governo per il paese: “Nel giro di qualche mese”, ha spiegato, “presenteremo un vero programma di governo agli italiani”. “Oggi”, ha aggiunto, “nasce una nuova comunità politica che sta dentro il centrodestra e che vuole dare un contributo, una mano e che non è contro i partiti, ma la politica deve aprirsi perché se si chiude rischia di perdersi”.

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Maurizio Lupi

Laicità, società civile e liberalismo le parole chiave dell’incontro, partecipato da poco più di un migliaio di persone, a fronte delle quattromila previste alla vigilia. Non particolarmente calorosa la reazione della politica, che dà l’impressione di voler, per il momento, stare a guardare – se per calcolo o reale diffidenza questo si capirà più avanti. Di certo, Parisi, che oggi trarrà le conclusioni, non ha voluto politici tra i relatori e Forza Italia non ha certo partecipato all’iniziativa in forze, nonostante inizialmente si parlasse dell’esplicita volontà di Berlusconi nel progetto di affidare proprio a lui le redini dello schieramento. Nessuna delegazione ufficiale, però, ha preso parte all’evento, mentre erano presenti Roberto Formigoni, ex presidente della Regione Lombardia, il capogruppo di Area Popolare (ex Forza Italia) Maurizio Lupi, l’ex ministro della Salute Maurizio Sacconi e l’ex ministro delle Infrastrutture Claudio Scajola.

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Massimo Gandolfini

Tra i primi ad intervenire, invece, è stato Massimo Gandolfini, presidente del “Family Day”, che ha esordito parlando di natalità come “volano per la ricostruzione da un punto di vista socioeconomico”, lanciando l’allarme sull’insostenibilità di uno Stato che non dà centralità alla famiglia e rischia di implodere sotto i colpi della cultura anni Ottanta del Double Income No Kids: “la famiglia è il primo welfare”, ha concluso. Parole, tutto sommato, ragionevoli seguite dall’intervento di Gaela Bernini per la Fondazione Bracco, già esponente di rilievo della Fondazione Milano per Expo. È la società civile di Parisi. Ma l’idea, per metodo e tipologia, non sembra poi così distante dagli esperimenti fallimentari dell’ex presidente del Consiglio Mario Monti. Il filosofo Gilberto Corbellini, che prende la parola subito dopo, infatti, non lesina attacchi di stampo fortemente centrista: “La diffusione di credenze irrazionali gonfia le vele al populismo”. Una stilettata al petto di Matteo Salvini, che intanto, da Pontida, dichiarava: “Piuttosto che stare in strada con gente come quella che c’è oggi alla convention di Parisi è meglio essere soli e orgogliosi“. Staremo a vedere, dal momento che il segretario della Lega ha poi ammorbidito i toni dichiarandosi disponibile al dialogo con tutti, seppur a certe condizioni. Sta di fatto che, già nelle elezioni amministrative, Parisi era appoggiato dalla Lega ed il leader era sempre lo stesso. Lo stesso che non ha mai del tutto chiuso le porte a Berlusconi e che ha fatto ultimamente pensare, nonostante il sostegno alla francese Le Pen, ad un addio fattuale rispetto al progetto sovranista da lui stesso lanciato.

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Suor Anna Monia Alfieri

Diversi altri spunti vengono dagli interventi, a cominciare dalle critiche mosse al sistema scolastico – giudicato classista, discriminatorio e di bassa qualità (“la scuola non è un ammortizzatore sociale per i docenti”) soprattutto in certe regioni – da parte di suor Anna Monia Alfieri, presidente della Fidae Lombardia. Un intervento dall’oratoria efficace e sorprendente, che si è distinto per i contenuti ed ha indubbiamente scosso la platea, che le ha regalato una calorosa standing ovation sul finale. Un intervento, dal punto di vista sostanziale, che sembrava vedere la soluzione concreta in una minore autonomia delle regioni; autonomia al centro, invece, del discorso di Carlo Portieri, che ha parlato di “necessità del federalismo” e di quello incompiuto e quindi mai fallito, a suo modo di vedere, realizzato in Italia. Le regioni, spiega, non dovrebbero avere competenze residuali, così come la libertà dei cittadini non può essere ciò che resta delle imposizioni che vengono dall’alto. Individuo al centro, dunque, seppure è singolarmente proprio dall’accusa di individualismo che parte l’incredibile requisitoria di matrice ottocentesca contro il welfare state.

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Una delle slide scettiche riguardo il welfare state

Tutto inizia con in collegamento da Londra e la spiegazione dei mali dello stato sociale, che svuota le casse dello stato e si limita a trasferire il reddito da chi ha di più a chi ha di meno, superando così compiti che sono stati e, a quanto pare, per i fan di Parisi, dovrebbero essere propri della società civile e non dello Stato centrale. Basti pensare che, ad oltre un secolo di distanza, si torna a guardare alle società di mutuo soccorso ed alle strutture scolastiche della Chiesa. È qui che il liberalismo di Parisi comincia a puzzare di Ottocento, di privatizzazioni e di privilegi. Ripensando alla frase sul populismo, del resto, tutto torna. Un caso? Dopo il video inglese uno potrebbe anche sospettarlo. Soltanto che , poco dopo, sul palco si sente di peggio: robe del tipo “l’assistenza sanitaria e l’educazione scolastica fornita dallo Stato sono una deformazione della realtà”, “se il privato ruba, il pubblico spreca” o “la politica frena la produttività nella sanità”. Tutto ad un tratto il welfare state, introdotto peraltro in Italia dal Fascismo, appare addirittura “comunista” , cosa che manco Berlusconi o Monti avevano mai osato dire. Se lo stato sociale è in crisi, insomma, è a causa della sua insostenibilità, etica prima di tutto. Discorsi d’accademia, certo. Peccato che qui si sta tentando di costruire il nuovo centrodestra e riferimenti culturali del genere non sono del tutto tranquillizzanti. Parisi, evidentemente, non teme di essere impopolare. O meglio: non teme le conseguenze di una sciatteria democratica che impedisce anche di cogliere il senso devastante delle tesi espresse. Ma, se sulla spesa gli amici di Parisi non sembrano troppo convinti, sul tassare appaiono più sciolti: “l’abolizione dell’Ici è stata troppo frettolosa”. Liberali a targhe alterne.

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Maryan Ismail

Interessante, ma un po’ insipido dal punto di vista politico, invece, l’intervento di Maryan Ismail. L’antropologia somala (così si definisce nonostante abbia studiato in Italia fin dalle elementari), mussulman a sufi, ex dirigente Pd, dimessasi a causa dell’elezione in Consiglio comunale di una mussulmana ortodossa, ha spiegato: “L’Islam oscurantista che ci presentano oggi è un’Islam politico”. “Chi scappa dal Corno d’Africa”, ha continuato, “scappa dalle bombe jihadiste”. Diritti dei migranti e si alle moschee non politicizzare, quanto al burkini: “prima le donne che lo indossano dovrebbero riconoscere i diritti di noi che non lo portiamo”. E sull’Islam: “alcuni versetti si possono sospendere per avere un’Islam più spirituale”. Certo, comodo così. Di certo, se questo è il mondo di Parisi, un liberalismo anti-statale e tanta confusione, le premesse non sono delle migliori.

Emmanuel Raffaele, 17 set 2016

Milano, apre il Mudec e va in scena l’Africa

mudec_2_webE’ stato aperto al pubblico ieri, 27 marzo, il Mudec (Museo delle Culture) insieme alla prima esposizione, “Africa. La terra degli spiriti”, che potrà esser visitata fino al 30 agosto e che affianca “Mondi a Milano. Culture ed esposizioni dal 1874 al 1940”, un percorso che parte dal decennio successivo all’unità d’Italia ed arriva a comprendere quasi interamente gli anni del fascismo facendo quasi da introduzione ad Expo 2015.

Un museo concepito come organismo vivente, questo il progetto nelle intenzioni dei suoi promotori (Comune di Milano e Gruppo 24 ORE ), funzionale al «dialogo con le comunità presenti sul territorio per dare ampia espressione alla pluralità delle culture che lo abitano e restituirne la complessità»[1], che vedrà infatti la collaborazione con l’Associazione Città Mondo, attraverso una convenzione che permetterà a quest’ultima di gestire lo “Spazio Attività Organizzative” e lo “Spazio Polivalente”, il laboratorio creativo e culturale del Mudec.

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Sala conferenze, dunque, ma anche un auditorium da trecento posti, bistrot, design store, laboratorio di restauro e spazio dedicato ai bambini e biblioteca con un patrimonio librario di 4mila monografie: ecco il frutto di oltre un decennio di attesa, fin da quando, nei primi anni Novanta, il Comune acquistò la zona ex industriale dell’Ansaldo e i suoi 17mila metri quadrati di proprietà, dove adesso è di scena il continente africano.

L’Africa e i suoi colori, l’Africa e i suoi suoni, l’Africa e, soprattutto, la sua diversità.

Un’esposizione che non stupirà per i contenuti, ma farà certamente riflettere sulla scarsa conoscenza della sua storia ed espressioni artistiche nella loro complessità.

“Terra degli spiriti”: un titolo che non poteva render meglio l’idea di un continente le cui opere qui esposte, dal Medioevo al secolo scorso, conducono dritti nel mondo delle tribù, di un misticismo tellurico simil-pagano che rende giustizia dell’identità di una realtà perfettamente complementare a quella europea.

Legno e bronzo, duecentosettanta esemplari soprattutto scultorei, per una mostra curata da Claudia Zevi, azzeccata nello stile espositivo e nelle luci, per nulla banale nella scelta dei pezzi esposti, tra i quali l’olifante d’avorio con lo stemma dei Medici e i cucchiai delle antiche collezioni medicee di Firenze.

mudec_1_webDal Congo al Mali alla Nigeria, storie di imperi pressoché sconosciuti, di un mondo esotico nel cui immaginario l’europeo è visto sempre (giustamente) come altro da sé e di una religiosità fortemente legata alla terra più che al “cielo”.

Storie ed impressioni che ci parlano di identità, di una diversità meravigliosa in quanto tale e del rischio distruttivo che comporta l’omologazione globale a fronte di un’economia predatoria e di un’immigrazione/emigrazione di massa che è fonte di sradicamento – letteralmente perdita delle radici.

Il Mudec, progetto rivolto appunto alle «comunità presenti sul territorio», è in realtà fonte di profonde riflessioni sul significato di “integrazione”. Paradigmatici, del resto, i versi che chiudono l’esposizione:

“Sono figlio della Guinea,

sono figlio del Mali,

nasco dal Ciad o dal profondo Benin,

sono figlio dell’Africa…

Addosso ho un grande bubu bianco.

E i bianchi ridono vedendomi

trottare a piedi nudi

nella polvere della strada.

 

Ridono.

Ridano pure.

Quanto a me, batto le mani

e il grande sole dell’Africa

si ferma sullo Zenit

per guardarmi e ascoltare.

E canto e danzo.

E canto e danzo”.

 

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[1] http://www.mudec.it/

Da oggi in edicola “L’album di Milano”: Pisapia racconta suo padre, Vecchioni improvvisa uno show

Giuliano Pisapia - CopiaGiuliano Pisapia era più sorridente che mai. Presente mercoledì sera all’evento organizzato dal “Corriere della Sera” per presentare “L’album di Milano”, una raccolta di 150 figurine disegnate da Emilio Giannelli per raccontare la città attraverso i suoi volti più noti, il sindaco meneghino sembrava non aver letto i giornali.

Della sua intenzione (peraltro già nota) di non ricandidarsi a sindaco nel 2016 e di Matteo Salvini che vuole prendergli il posto e, soprattutto, di un Partito Democratico a cui non dispiacerebbe troppo liberarsi di lui, magari per piazzare a palazzo Marino Giuseppe Sala, commissario unico di Expo 2015, il sindaco “arancione” sembrava essersi dimenticato.

Claudio Sanfilippo - Copia

A tirargli su il morale, in effetti, ci hanno pensato in tanti: da Vivian Lamarque, penna del Corriere nonché scrittrice e poetessa, che ha azzardato un «poesia fa rima con Pisapia», a Roberto Vecchioni, che ha rilanciato con «il nostro sindaco è un poeta», prima di improvvisare, in chiusura, un “Luci a San Siro” voce e chitarra a dir poco emozionante, recitata più che cantata e, naturalmente, applauditissima. Ma la sviolinata vera e propria è arrivata dei cantautori della “Scuola Milanese” Carlo Fava, Folco Orselli e Claudio Sanfilippo, che hanno implorato in musica Pisapia di riconsiderare l’idea della candidatura: «Proprio adesso che avevamo trionfato!», hanno cantato, senza mancare di citare lo spauracchio dell’innominabile leader leghista Matteo Salvini. Tanto per far capire da che parte stanno la stampa e la cultura dominante.

Carlo Fava - Copia

Per il resto, la serata è trascorsa piacevole, pur senza troppe emozioni.

Fernanda Pivano, Ottavio Missoni, fratel Ettore Boschini, Sergio Bonelli e, naturalmente, Giandomenico Pisapia, padre dell’attuale sindaco di Milano e del codice penale italiano: questi alcuni dei personaggi raccontati ieri dal filosofo Giulio Giorello, dal cantante Eugenio Finardi, dalla giornalista Isabella Bossi Fedigrotti, dallo psicologo Fulvio Scaparro e, appunto, dal primo cittadino.

Loro, i milanesi di nascita e d’adozione che si sono distinti nelle arti, nel lavoro, nella scienza e nella politica, erano del resto i veri protagonisti della serata. Loro i volti che, come si faceva con la raccolta dei calciatori “Panini”, sarà possibile trovare in edicola fino al 18 maggio da attaccare all’album che sarà distribuito oggi in allegato a “Sette”.

Personaggi come Manzoni, Verdi, Treccani, Boccioni, Pirelli, Breda, Meazza, Moratti, Vianello, Gaber, Rizzoli e Mondadori.

Giangiacomo Schiavi_Giuliano Pisapia

«Un’autobiografia della città, un racconto a frammenti che ricostruisce il ruolo di una capitale della modernità»: questo il senso dell’iniziativa nelle parole di Giangiacomo Schiavi, vicedirettore del Corriere della Sera. «Camminiamo nella storia», spiega nella sua introduzione il giornalista, «ma i giovani cittadini del mondo globale non conoscono  come i loro padri le radici  del luogo in cui vivono».

Radici, punti di riferimento, storia e un pizzico d’orgoglio, per «dare a tutti un senso di appartenenza» attraverso la condivisione dello «spirito di Milano, uno spirito fatto di orgoglio e coraggio, di etica del lavoro e di passione civile, nutrito dalla cultura, dall’impegno e dal rispetto».

Iniziativa senza dubbio lodevole, se non altro perché implicitamente ricorda il significato di “comunità” che, a differenza del concetto utilitaristico ed individualista di “società”, è condivisione di un destino, di un passato e di un futuro, di un’etica e di esempi da seguire ed a cui ispirarsi.

Milano, ‘Feltri show’ alla presentazione di Sovranità: “basta prendere ordini dall’Europa”

Borgonovo_FeltriE’ un Vittorio Feltri come al solito incontenibile a prendersi la scena in occasione della presentazione di “Sovranità” svoltasi ieri sera presso il C.A.M. di corso Garibaldi a Milano.

E lo fa all’insegna del no a quest’Europa: «Lingue, culture, economia, politica estera, fisco: niente accomuna i 27 paesi dell’Ue eccetto la moneta. Mai nella storia nazioni diverse sono state unite efficacemente soltanto da una moneta. E proprio in questi giorni, infatti, tocchiamo con mano l’inconsistenza dell’Europa sul caso Libia».

«Mondialismo o sovranità: il binomio destra-sinistra non rappresenta più il crinale di distinzione decisivo nella politica», spiega infatti Alberto Arrighi, ex deputato di An, tra gli animatori principali del nuovo soggetto della destra identitaria nato per sostenere il progetto politico di Matteo Salvini.

Del resto, lo slogan del movimento, «sovranità, identità, lavoro»,  rappresenta tre nette scelte di campo. Sovranità, prima di tutto, per recuperare il potere decisionale in ogni ambito: monetario, energetico, militare, economico, territoriale e rimettere al centro gli interessi del paese e dei cittadini italiani. Identità, in opposizione al multiculturalismo che snatura le nazioni. Lavoro, contro una finanza che si è impadronita dell’economia.

Una linea sulla quale sembra concordare l’editorialista de “Il Giornale” che, pur confessandosi idealmente europeista, contesta duramente l’Ue e non fa sconti a nessuno: «Monti, Letta e Renzi, tutti a baciare la pantofola della Merkel: lei ci prende per il culo, noi imbecilli che andiamo a prendere ordini».

L’ex direttore di “Libero” e de “Il Giornale”, che lo scorso anno ha pubblicato per Mondadori “Il Quarto Reich. Come la Germania ha sottomesso l’Europa”, non è del resto nuovo ad uscite sovraniste e, nella sua lettura, la resa incondizionata dell’Italia ha un’origine ben precisa: «l’Italia negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta era all’avanguardia in ogni campo, aveva compiuto il suo miracolo economico, nonostante la guerra: l’Olivetti con il primo pc, l’invenzione della plastica, l’Eni, il nostro paese vanta da sempre le più grandi invenzioni. Poi nel ’68 hanno vinto i cretini, coloro che volevano distruggere ogni cosa».

Una provocazione, ma neanche troppo: «l’Italia ha sempre avuto a che fare col nemico interno, basti pensare che, alla morte del dittatore sovietico Breznev, metà parlamento andò al suo funerale, incluso Pertini, che ancora oggi è idolatrato. E durante la “Guerra fredda” mezza Italia faceva il tifo per il nemico contro gli interessi del proprio paese».

Nel mirino c’è, chiaramente, una sinistra che ha anteposto gli interessi di partito agli interessi nazionali, ma c’è soprattutto l’affermazione col ’68 di una visione del mondo rinunciataria, utopistica, politicamente corretta che, etichettando come fascista ogni forma di patriottismo, ha distrutto ogni ambizione italiana, ogni orgogliosa rivendicazione dei propri interessi, la capacità di lottare per la propria dignità, per il proprio paese.

«Una costituzione ipocrita», ha aggiunto Feltri, «ripudia la guerra ed alla sola idea della guerra, alla vista di un fucile, tremiamo. Abbiamo abolito la leva obbligatoria, rinunciato alla difesa, delegato tutto agli americani salvo poi accusarli di essere guerrafondai. Ma le guerre ci sono e noi abbiamo così soltanto azzerato la nostra dignità, diventando incapaci di dire no».

Un paese a capo chino, questo il frutto del ’68: una dittatura del politicamente corretto al punto che, spiega Riccardo Pelliccetti, inviato de “Il Giornale”, «se scriviamo la parola “clandestino” rischiamo di incorrere in sanzioni dell’ordine dei giornalisti».

«Anche la crescita demografica», ha ricordato il leghista Fabrizio Ricca, «è divenuto argomento tabù dopo la caduta del fascismo ed ora, con l’attuale tasso di crescita, siamo destinati a morire. La priorità ora è difendere i nostri confini dall’invasione in atto».

Diversi punti di contatto e priorità in comune: è, dunque, questo il collante tra ampi settori della cosiddetta destra radicale e la nuova Lega targata Matteo Salvini che, al di là dei personalismi, sembra avere le idee programmaticamente molto chiare ed un progetto a lungo termine per proseguire su questa linea, come dimostrato dai dieci punti presentati su “Il Foglio” lo scorso 11 febbraio.

 

Il programma di Salvini: nazionalizzazioni, produzione domestica, sovranità monetaria

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«Meno Europa», come recita il primo punto, ma non solo: «nazionalizzazione di imprese strategiche e/o produttrici di beni richiesti dal mercato ma momentaneamente in crisi», «flessibilità di bilancio», «abolizione della legge Fornero», «no al Ttip» (Trattato transatlantico su commercio ed investimenti), «controllare le frontiere», zero tassazione per chi ha reddito zero, «superamento del sistema dei trasferimenti fiscali».

Un programma che, al di là delle semplificazioni giornalistiche, riflette una visione tutt’altro che classicamente liberale, d’impronta sociale e sovranista e, dunque, molto vicino alla cosiddetta destra identitaria.

«La difesa dell’euro si attua sulla pelle degli italiani […] mentre il riequilibrio potrebbe attuarsi in modo naturale con un cambio flessibile», esordisce il segretario della Lega, che bolla come fumo negli occhi anche l’attenzione eccessiva per un’inflazione sotto controllo: «anche in presenza di prezzi stabili (o addirittura in calo) se il reddito si riduce fortemente ecco che il potere d’acquisto svanisce […]. In pratica 100 per cento di inflazione pur con prezzi immobili».

E, poi, no al Tiip, come anticipavamo: «Spalancare ulteriormente l’Italia alla concorrenza estera mentre la nostra industria, la nostra agricoltura, il nostro allevamento sono in ginocchio significherebbe dare il colpo di grazia alla nostra economia», chiarisce Salvini, che sottolinea anche l’implicita cessione di sovranità nel demandare «ad altri le autorità di controllo e sorveglianza».

Il quarto punto potrebbe benissimo far parte del programma di politica economica di CasaPound e nessuno ci troverebbe nulla di strano, anzi: «In attesa del rilancio “naturale” dell’industria con il recupero della sovranità monetaria si potrebbero creare fabbriche e coltivazioni mirate alla produzione di beni esclusivamente importati da paesi extra Ue […]. La spesa necessaria alla riconversione delle imprese o, nel caso della produzione di beni abitualmente importati, alla copertura della realizzazione “sottocosto” di tali beni (se fosse conveniente produrre a prezzo pieno lo farebbero i privati) consentirà di rimettere in circolo denaro, contrastando al contempo lo squilibrio della bilancia commerciale perché si ridurrebbero le importazioni».

Priorità per le piccole e medie imprese a dispetto delle «grandi imprese globalizzate e delocalizzate» col «plauso costante di Confindustria»: «la chiave del nostro modello», spiega infatti, «sarà la produzione domestica […]. Se molti imprenditori italiani hanno deciso di delocalizzare salvando i propri profitti a scapito dei posti di lavoro si preparino a fare marcia indietro». Altro punto da anni cavallo di battaglia della destra identitaria.

«Un sistema previdenziale che diventa contributivo», afferma invece Salvini a proposito della legge Fornero, «ma al contempo lascia i lavoratori privi di un lavoro e della pensione è assurdo, barbaro e deve essere abolito». Dunque, più stato sociale contro i teorici del liberismo.

«Il Pd preme», aggiunge l’ottavo punto, «per l’azzeramento degli enti locali in Italia, la cessione di sovranità a Bruxelles e l’annegamento globalista in un mondo dominato dalle grandi multinazionali rese “competitive” dalla mano d’opera a basso prezzo incoraggiata ad invaderci con “mare nostrum” e frontiere aperte. Noi, anche qui, vogliamo l’esatto contrario. Siamo convinti che il “frullato” di culture e sapori faccia comodo solo a pochi e che invece nella diversità, nelle tradizioni e nelle autonomie locali vi sia la vera ricchezza. Pertanto siamo per uno stop all’immigrazione incontrollata in assenza di domanda di lavoro». Standing quasi ovation: considerate le premesse si poteva benissimo essere più chiari nel chiedere lo stop all’immigrazione, punto.

E ancora. «Terapia shock per mezzo dello strumento della flat tax. Un’unica aliquota molto bassa uguale per tutti, con una deduzione fissa su base familiare renderà dichiarare i propri redditi semplice e conveniente» secondo una logica di base precisa: «I debiti si ripagano col lavoro e con la crescita: considerare le coperture dei provvedimenti fiscali ex ante senza valutare l’impatto di tali provvedimenti sull’economia è un semplice metodo perché nulla cambi mai».

È invece la conclusione del discorso di Salvini a suscitare il bisogno di qualche chiarimento: non vogliamo pagare i debiti degli altri, i nostri soldi devono rimanere qua, non diamoli all’Europa. E fin qui ci siamo. Poi, però, il discorso prosegue con questa logica fin dentro i confini nazionali, giungendo a conclusioni che non possono esser digerite senza fiatare: «Noi proponiamo un sistema dove nessuno debba pagare per altri e dove ognuno possa essere competitivo con le proprie forze». «Pertanto», aggiunge in maniera ancora più esplicita, «dopo un iniziale ritorno allo status quo pre-euro, necessario per rimettere in piedi il tessuto industriale del nord Italia con l’aiuto di una valuta più leggera, occorrerà pensare a meccanismi di flessibilità (come ad esempio due monete) per riequilibrare la competitività del sud esattamente nello stesso modo in cui si cerca il recupero della competitività italiana verso la Germania».

Se fosse una premessa, una cura, in vista della crescita nazionale, ci si potrebbe ragionare. Ma l’assonanza con troppi slogan autonomisti già sentiti è impossibile da negare. Perciò qualche chiarimento sarebbe necessario. La sovranità è nazionale o non è. Ricordarlo costantemente a chi, al di fuori, dovesse metterlo in dubbio sarà il compito del neonato movimento.

A Milano il cardinale Onaiyekan: “Boko Horam uccide anche mussulmani”. Ma il martirio cristiano non meritava il silenzio

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«Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me». Giovanni 16, 2-3.

Potrebbe apparire secondario, ma non fu l’ateismo, l’ignoranza o la cattiveria in una delle sue forme più stereotipate ad uccidere Gesù Cristo. A volerne e chiedere insistentemente la condanna a morte per crocifissione fu, al contrario, l’integralismo ebraico e, dunque, l’integralismo religioso, che d’altronde è l’oggetto principale degli attacchi del profeta del Cristianesimo nei vangeli canonici.

«Risposero i Giudei: ‘Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio’». (Gv 10, 33).

Come abbiamo visto, in effetti, quando Gesù Cristo profetizzava la persecuzione dei cristiani, in seguito alla persecuzione che Egli stesso subiva, il riferimento al fanatismo religioso è esplicito.

Ecco perché l’incontro avvenuto due giorni fa nel Duomo di Milano con il cardinale ed arcivescovo di Abuja, capitale della Nigeria, John Olorunfemi Onaiyekan, è stata probabilmente un’occasione mancata per parlare del martirio dei cristiani nel paese africano, perseguitati per la loro fede dagli estremisti islamici del gruppo di Boko Haram che, letteralmente, si traduce come proibizione della formazione e cultura occidentale in quanto falsa e peccaminosa.

Una considerazione sincera che non nasce certo dalla pur ovvia attenzione “giornalistica” per la cronaca, né dalla rilevanza politica della questione o da una giustificata volontà di condivisione e dall’interesse per la situazione da parte dei fedeli nella medesima Chiesa e dunque comunità che, in Nigeria, vive sotto attacco. La considerazione, in realtà, viene spontanea proprio in considerazione dalla centralità che ha il martirio nella storia, nella fede e nella tradizione cristiana e del quale proprio Gesù Cristo, torturato ed assassinato per motivazioni religiose, è in effetti il primo martire.

«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me» (Gv, 10, 18).

Ecco perché l’incontro del settantunenne cardinale nigeriano con la città di Milano, risoltosi con una – poco approfondita quanto surreale, viste le circostanze – lezione di storia dell’Africa, della Nigeria e del proselitismo cristiano in quelle terre, avrebbe potuto probabilmente lasciare molto di più dal punto di vista della testimonianza “religiosa” a tutto vantaggio anche di quella “laica”.

E, invece, delle sofferenze dei cristiani – che peraltro nel paese non sono certo una minoranza rappresentando circa la metà della popolazione – semplicemente non c’è traccia, testimonianza o racconto. Neanche un accenno alle cronache ma soltanto qualche dichiarazione generale pur condivisibile su Boko Haram a margine dell’incontro, introdotto dal cardinale ed arcivescovo di Milano Angelo Scola.

Eppure le premesse sembravano buone: «per noi, figli di un Dio incarnato, il quotidiano è un piano imprescindibile», ha esordito il cardinale creato da Benedetto XVI.

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«Come in Iraq e Siria c’è l’Isis, nel Maghreb c’è Al Qaeda e da noi c’è Boko Haram: è lo stesso fanatismo, la stessa ideologia violenta di una pericolosa minoranza», ha spiegato. «Boko Haram», ha infatti proseguito in seguito, «non rappresenta la comunità islamica nigeriana, che condanna le violenze. E, forse, uccidono più mussulmani che cristiani, dal momento che agiscono in zone a maggioranza mussulmana».

«Non nego che ci sia una persecuzione dei cristiani», aveva del resto dichiarato in una intervista di Gian Micalessin per Il Giornale, «nego che i Boko Haram uccidano solamente i cristiani. Hanno ucciso imam e musulmani. E distruggono tutte le moschee in cui si predica qualcosa che non va bene a loro».

Un approccio del tutto diverso, ad esempio, da quello del vescovo luterano Nemuel A. Babba che, a fronte di oltre cento chiese attaccate in sei anni, sostiene:  «I cristiani sono in maniera specifica presi di mira da Boko Haram. Questo non significa negare che i musulmani vengano attaccati e uccisi, ma i cristiani soffrono le perdite più alte», spiegando anche come «la presenza di questo gruppo militante ha eroso la fiducia fra cristiani e musulmani» anche a causa della difficoltà, per un cristiano, di capire molti mussulmani  dicano «la verità sul volersi sbarazzare di Boko Haram. Dinamiche simili avvengono nel governo, nei partiti politici e nelle forze armate».

Più simile a quella del cardinale, invece, è la lettura del missionario comboniano Elio Boscaini, voce storica della rivista Nigrizia, che dichiarava su Panorama: «Boko Haram non riconosce neanche le autorità tradizionali musulmane in Nigeria e ormai le considera traditrici, quasi al pari dei cristiani e del governo centrale».

«Certo», tornando all’incontro all’interno della cattedrale meneghina ed alle parole del presule, «i mussulmani moderati non possono più limitarsi a prendere le distanze: solo loro possono parlare ai mussulmani di Boko Haram, che non ascolterebbero mai un cristiano. E sono quindi loro che hanno il dovere di dirgli che ciò che fanno è contro l’Islam».

Rifiuto dello scontro di civiltà, dunque, e forte responsabilizzazione della comunità islamica nigeriana nella soluzione della vicenda: questa, in sintesi, la posizione di SE Onaiyekan, che mostra soddisfazione e tiene molto a sottolineare il rigetto crescente della comunità islamica nei confronti del fanatismo religioso (ricordando anche un partecipato incontro in Giordania alla presenza di re Abdullah II, a sua volta impegnato contro l’Isis), ma anche la collaborazione dei capi religiosi nigeriani nell’affrontare la questione e del mondo arabo in generale che sta tentando di dare anche una risposta teologicamente fondata.

«Ci sono molti tentativi di autocorrezione in corso e, seppur siano poco pubblicizzate in Occidente, noi cristiani dobbiamo apprezzarli», ha esortato.

Un tono certamente meno aspro di quello usato nelle ore precedenti l’incontro, di fronte ai giornalisti che lo incalzavano sul tema: «Anche se un padre ha un figlio che diventa ladro, non potrà mai negare che è suo figlio», aveva detto in conferenza stampa in una sorta di legittima riproposizione della dialettica Brigate Rosse – Partito Comunista Italiano.

«Dico sempre ai miei amici musulmani che loro devono accettare di essere responsabili di questa gente», aveva aggiunto alzando poi ulteriormente i toni: «Io dico sempre che non basta condannare Boko Haram, perché che cosa insegna l’islam nelle sue scuole in Nigeria? A non rispettare le altre religioni. Se questo è il discorso normale, se i bambini crescono così, poi è chiaro che si crea un terreno fertile per l’emergere di Boko Haram o dell’Isis o di al-Qaeda. Il problema, quindi, non è solo Boko Haram ma l’atteggiamento dei musulmani in generale, che non rispettano le altre fedi. Come è emersa questa ideologia mondiale? Questo i musulmani devono chiederselo per porvi rimedio».

«Molti musulmani oggi», aveva del resto dichiarato a Il Giornale, «si formano seguendo un’idea religiosa molto intollerante. Dal loro punto di vista l’Islam è l’unica religione giusta, frutto degli insegnamenti e della predicazione di un Profeta superiore a tutti gli altri. Secondo queste convinzioni il volere di Allah deve valere per tutta l’umanità. Questo modo di pensare equivale a sostenere che qualsiasi altra religione è falsa. Infatti molti musulmani accusano noi cristiani di non essere più monoteisti, ma triteisti. Quanto viene insegnato nelle madrasse (scuole coraniche) e nelle mosche è il vero problema. Anche se bisogna ricordare che alcuni gruppi di cristiani nutrono lo stesso atteggiamento verso l’Islam».

Affermazioni anche queste condivisibili, se non fosse che il cardinale stesso ricorda, anche nell’incontro coi milanesi: «sia il Cristianesimo che l’Islam sono caratterizzati dalla pretesa universalista». Del resto, non è certo dell’Islam il monito «extra Ecclesia nulla salus« («nessuna salvezza fuori dalla Chiesa») o la pretesa che il proprio profeta sia superiore agli altri visto che, anzi, tutto il contrario.

E sulla gestione politica della vicenda arriva un’altra esortazione, stavolta più spicciola, che sa di accusa (legittima) al governo nigeriano guidato dal presidente cristiano Goodluck Jonathan: «L’ideologia di Boko Haram si sconfigge con la teologia e non soltanto con la forza ma il governo deve comunque fare il suo lavoro e rispondere con le armi agli attacchi». «Noi abbiamo i mezzi, i soldi e le armi, ma fino ad ora ci è mancata la volontà politica», ha sancito Onaiyekan, che ha fatto anche sapere di non fidarsi molto dell’utilità della comunità internazionale e di non auspicare un intervento di questo «strano animale» che si muove «solo per interessi personali».

«Se ti trovi davanti un Boko Haram», chiarisce giustamente al quotidiano fondato da Montanelli, «come pensi di fermarlo con un Ave Maria? O con l’acqua santa? Loro sono armati, pronti a sparare e ad ammazzare persone innocenti. Chiedere di fermarli è in linea con il principio morale cattolico che impone di fermare un aggressore ingiusto».

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Analoghe critiche ai governi che si sono succeduti giungono, del resto, da diverse parti: «sotto la presidenza Obasanjo, tra il 1999 e il 2007, non è stato fatto niente per avvalorare certi principi costituzionali di laicità quando Stati federali come Zamfara (attualmente nella zona controllata da Boko Haram, ndr) hanno decretato l’applicazione della sharia», ricorda Wole Soyinka, scrittore nigeriano e Nobel per la letteratura nell’86, intervistato da Le Journal du Dimanche.

In effetti, il governo, che ora promette un’operazione di “pulizia” in sole sei settimane, complici forse le elezioni alle porte, si è rivelato del tutto (forse “consapevolmente”) inetto.

In occasione della strage nel villaggio di Izghe, nello Stato del Borno, in cui almeno 106 persone sono state uccise al grido di «Allah è grande» con coltelli, machete e armi da fuoco, in cui sono stati saccheggiati magazzini e depositi ed incendiate le case, da parte dell’esercito, scriveva Repubblica già agli inizi dell’ano scorso, «Nessuna resistenza, nemmeno un poliziotto o un soldato nel villaggio, nonostante gli ultimi giorni siano stati scanditi da eccidi e decine di morti nella zona. E nonostante la “guerra” dichiarata dal presidente cristiano Goodluck Jonathan a Boko Haram e la costituzione di milizie armate di autodifesa, in cui sono entrati anche musulmani moderati, da affiancare alle forze di sicurezza».

Ma senza andare troppo indietro, l’assenza di una risposta forte si è percepita chiaramente anche nel gennaio scorso in seguito al massacro di Baga, che Amnesty International ha definito come il «più sanguinoso nella storia di Boko Horam». «Jonathan», scrive Jeune Afrique, «è andato in visita a Maiduguri, il capoluogo dello stato di Borno, il 15 gennaio, dodici giorni dopo l’inizio» della strage. «Non ha detto una parola. Eppure era già cominciato da quattro giorni quando i fratelli Kouachi hanno fatto irruzione nella redazione del settimanale francese» Charlie Hebdo, in seguito al quale il presidente si era invece affrettato ad inviare alla stampa un comunicato per esprimere la sua solidarietà e il disprezzo per il gesto.

Del resto, continua la giornalista Rémi Carayol, «Baga è stata difesa solo dalle milizie di autodifesa, mentre i soldati dell’esercito sono scappati via abbandonando le armi».

Una inefficienza dimostrata dal controllo territoriale degli estremisti: «il gruppo jihadista controlla quasi 150 chilometri di confine con il Niger, un’ampia parte delle rive del lago Ciad e quasi duecento chilometri di frontiera con il Camerun». «Dopo aver fatto scorta di armi in Libia e Sudan», aggiunge nella sua traduzione l’Internazionale (che all’argomento ha dedicato la copertina e un approfondimento nell’ultimo numero), «attraverso il Ciad, i miliziani prendono quello che gli serve nelle caserme dell’esercito nigeriano, che stanno cadendo una dopo l’altra. Il gruppo ha a disposizione carri armati, veicoli blindati, centinaia di pick-up, pezzi d’artiglieria e forse perfino armi antiaereo».

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Fondato nel 2002 a Maiduguri dal predicatore Mohammed Yusuf, Boko Horam ha iniziato la sua ascesa e radicalizzazione dal 2009, dopo la morte del fondatore e, da allora, con un incremento a partire dalla rielezione del presidente nel 2011, si stimano tra i 13mila ed i 30mila morti ed un milione di sfollati in seguito ai suoi attacchi.

E secondo alcune stime, ben 30mila sarebbero i combattenti sui quali l’organizzazione può contare per affrontare la forza congiunta dell’Unione Africana formata da soldati di Nigeria, Camerun, Benin e Ciad che dovrebbe arrivare a circa 8mila uomini.

E’ così che il gruppo, in base ad alcune stime secondo per numero di vittime solo all’Isis dal 2014 ad oggi, distintosi per crudeltà quando usò una bambina di otto anni come kamikaze, autore del tristemente famoso rapimento di duecento liceali cristiane poi vendute o costrette al matrimonio, si appresta ora a conquistare la città in cui è stato fondato, mentre la maggioranza della popolazione in Nigeria non dispone di acqua corrente ed elettricità, il governo lascia il paese in balìa delle società petrolifere, mentre le elezioni metteranno di fronte l’attuale presidente ad un ex militare, Muhammadu Buhari, 72 anni contro u 57 del presidente in carica, che su Boko Haram, lui che proviene dal nord mussulmano, in passato pare si sia distinto per ambiguità, nonostante ora ne prometta lo sbaragliamento dall’alto del suo dubbio diploma di scuola elementare.

Questo è il paese del quale il cardinale John Olorunfemi Onaiyekan – che pur propone un’analisi condivisibilissima ed imparziale, lucida e non certo funzionale alla logica occidentalista – avrebbe forse dovuto portare una testimonianza più netta, più alta, più cristiana o semplicemente più autentica, anziché raccontarci in versione Wikipedia ridotta la fiaba dell’evangelizzazione del suo paese nei secoli o la squallida competizione per le anime tra le diverse comunità cristiane (oltre che con l’Islam), cadendo per giunta nella contraddizione di ergersi a paladino dell’anticolonialismo salvo poi benedire l’avvento, grazie ad esso, del Cristianesimo, e raccontandoci pure la balla della maggioranza cattolica all’interno della comunità cristiana, smentito dai dati ufficiali.

LEI DISSE SI

lei disse siLei disse si. Ad un’altra donna. E la proiezione in anteprima, per la decima edizione del Biografilm Festival 2014, è un misto di applausi progressisti e commossi pianti nuziali che regalano alla regista Maria Pecchioli il premio della giuria per la categoria «Italia».

«Lei disse si», infatti, è il documentario che, dal 21 ottobre, racconta, in una ventina di cinema italiani per poco più di un’ora, la storia di Ingrid Lamminpää e Lorenza Soldoni (toscane con origini svedesi nel primo caso), felicemente spose in terra scandinava nel giorno del solstizio d’estate 2013.

«La rivoluzione a colpi di bouquet è appena cominciata», annuncia il sottotitolo di una pellicola presentata a Milano il 25 novembre appena trascorso con la partecipazione della Pecchioli, che su cinemagay.it in proposito osservava:  «il matrimonio ha una struttura borghese, ma in questa nuova chiave ha in sé il germe dell’uguaglianza e, quindi, è rivoluzionario».

«E’ importante», aggiungeva, «costruire un immaginario sul matrimonio tra due persone dello stesso sesso».

Ma il tentativo, per certi versi, non è il massimo, visto che a sposare Lorenza ed Ingrid è la versione in carne ed ossa del Capitano McAllister dei Simpson, con tanto di occhiali da sole e furgoncino con réclame: «officiante di matrimoni». Forma decisamente trash per una cerimonia a dir poco scarna, priva di emozioni, con tanto di «gimme five» a sigillare l’unione.

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Encomiabile, d’altra parte, l’atteggiamento delle due spose, che non si vestono di retorica omosex o vittimismo, donando tutto sommato gradevolezza ad un documentario che, nato da un video blog e finanziatosi sul web, ci parla di una storia semplice, che suscita simpatia quanto le due protagoniste, ironiche e sfrontate come «madrepatria Toscana» comanda.

Nessuna mascherata, problemi di coppie come tante, fidanzamenti, la paura dell’ufficialità, i parenti, la torta di nozze, il vestito da sposa. Tutto molto normale e nessuna enfasi nel racconto.

«Hanno trasmesso il senso del matrimonio che molti etero hanno perso», osserva Milena Cannavacciuolo, fondatrice del blog «Lez Pop» («La cultura pop in salsa lesbica»), in occasione della proiezione milanese, azzeccando probabilmente in pieno l’analisi.

Mentre la stylist commenta: «il timore è che la comunità gay si imborghesisca e prenda una piega tradizionalista».

Ma, al di là degli aspetti ideologici e di costume, dei «pro» e dei «contro» aprioristici, che ciascuno sia libero di stare con chi gli pare e di renderlo (anche legalmente) ufficiale è un fatto di libertà che non dovrebbe esser messo in discussione. Nel concreto dei diritti e doveri che da quell’unione nascono risiede invece il nocciolo della questione.

Nel momento in cui nuove unioni legali vengono introdotte nel sistema, è naturale ripensare a tutto ciò che ha un costo in termini economici, tanto per lo Stato (es. reversibilità di trattamenti pensionistici) quanto per il singolo (es. mantenimento) o terzi (es. ferie) e riflettere sull’origine o motivazione di queste concessioni, tanto per i matrimoni tradizionali quanto per le eventuali unioni civili.

Emmanuel Raffaele

Van Gogh a Palazzo Reale: il pittore contadino

van-gogh-Paesaggio-con-covoni-di-grano-e-luna-crescenteLuci basse. Soffuse. Toni scuri. Pochi colori. Il van Gogh che non t’aspetti a Palazzo Reale. Le colorazioni vivaci sono ancora di là da venire. Una lunga fila sotto la pioggia, coda di ombrelli. Il Duomo di Milano, a pochi metri, restituisce maestosità. L’allestimento regala intimità. Il silenzio dona concentrazione. Il volto di un pescatore segnato dal tempo e dalla fatica. Contadini ricurvi. L’uomo e la terra. “Nidi umani, quelle capanne nella Brughiera e i loro abitanti”. Emozionano l’artista e chi guarda. Fingono raccoglimento. Forse lo auspicano. E’ ricerca del vero nella terra. “Se si vuole crescere bisogna affondare le radici nella terra”. Vita rurale ed insegnamenti esistenziali. “Imparare la pazienza guardando il grano salire lentamente”. Ma ogni idealizzazione è assente. La rappresentazione non é idilliaca. C’é realismo. Quella ricerca costante del vero che non gli fa amare troppo gli impressionisti né l’appellativo di ‘simbolista’. La sua pittura è tributo al lavoro. Alle mani callose. Sacro rispetto della fatica. “Un quadro di contadini non deve diventare profumato”. Finché, in chiusura, un cielo immenso si prende la scena. Diviene quasi unico protagonista. Esplode di colori, mentre la luna si appresta a riempirlo illuminando un campo di grano. E’ l’estasi visionaria del pittore olandese. L’omaggio del firmamento alla vita contadina. Ai covoni di grano depositati quasi come su un altare.

La tecnica é tutt’altro che omogenea. A tratti ingenua, semplifica troppo. A volte più esperta e fedele disegna emozioni. Jean Francois Millet, sua fonte d’ispirazione pittorica, è presente nei temi, non nel tratto, tutt’altro che delicato, quasi sempre brutale, secondo una definizione che ritorna spesso.

Una pittura integrale. Traspare l’animo. Forse la sovrasta. L’umiltà di una ricerca costante. Di uno studio continuo della tecnica.

E’ un Vincent bambino, capriccioso, folle, disordinato, illuso.

“Non posso farci niente se i miei quadri non si vendono. Verrà il giorno, però, in cui la gente capirà che valgono più del costo del colore e della mia vita, alla fine molto misera, che ci stiamo investendo”.

Un pittore bambino, un pittore contadino che, forse per caso, forse no, forse per la sua riconoscibilità, è diventato uno dei pilastri dell’ arte figurativa contemporanea. Anche se il segreto, probabilmente, è osservare un suo dipinto come se avesse appena raccolto la sua tela, i suoi pennelli, lì tra i campi, ad opera appena compiuta. Lì è il vero, lì è anche il vero van Gogh che, di là dal mito divenuto, egli auspicherebbe scorgessimo.