Film, “La Fratellanza”: Jacob e la gabbia del branco – Recensione e trailer ufficiale

Negli Usa è stato presentato prima dell’estate e non ha certamente (ed ovviamente) entusiasmato la critica internazionale come ha fatto a fine stagione “Dunkirk“, che ha prevedibilmente conquistato il primo posto al botteghino. Eppure “Shot caller” (“La Fratellanza“), 121 minuti di pellicola proiettati nelle sale italiane dallo scorso 7 settembre, ha sorpreso in Italia, guadagnandosi in fretta il terzo posto per gli incassi nel nostro Paese. La cronaca secca dell’Ansa ce lo presenta così: “un thriller che affronta da vicino la vita nelle carceri negli Stati Uniti, il Paese che incarcera il più alto numero di persone pro capite al mondo”. Ma “La Fratellanza”, film diretto da Ric Roman Waugh, con Nikolaj Coster-Waldau di “Game of Thrones” nel ruolo del protagonista, non è propriamente un film sul sistema carcerario americano, né sul carcere in sé. Non a caso “la Bestia”, leader della gang in cui – suo malgrado – entra a far parte l’ormai ex broker Jacob Harlon (finito in prigione per un incidente), oltre a mettergli a disposizione i suoi testi di psicologia, gli ricorda: “L’arma più potente di un guerriero è la sua mente“, aforisma che infatti conquista la locandina del film. Continua a leggere

“Dunkirk” finalmente al cinema e ne parlano tutti (anche troppo) bene, ecco perché…

Con oggi, siamo al terzo giorno di proiezioni in Italia (a parte qualche anteprima il 30 agosto). Negli Usa, invece, è uscito già il 21 luglio scorso. E, chi si è cimentato nelle critiche, difficilmente ha risparmiato elogi. “Dunkirk“, film insolitamente realistico di Cristopher Nolan, che racconta un episodio cinematograficamente “inedito” della Seconda Guerra Mondiale, scritto e co-prodotto dallo stesso Nolan, girato a partire dal maggio 2016 quasi interamente nei luoghi dei quali racconta, con i suoi 106 minuti di pellicola, è praticamente già candidato a fare incetta di Oscar.

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Nei cinema “Loving”: quando gli Usa vietavano i matrimoni misti (oltre 20 anni dopo averci “liberato” dal fascismo)

Stati Uniti, 1924. Ben quattordici anni prima che in Italia venissero promulgate le cosiddette leggi razziali, lo stato americano della Virginia emanava il Racial Integrity Act, una legge per la tutela dell’integrità della razza, che sarebbe rimasta in vigore addirittura fino al 1967 e che, in versioni simili, interessò fino al caso “Loving contro Virginia” decine di stati a stelle e strisce. Il Racial Integrity Act, tra le altre cose, vietava a persone di razza bianca di sposare persone di altre razze. In Georgia era vietato sposare “persone di discendenza africana; tutti i negri, i mulatti, i meticci, e i loro discendenti, aventi nelle vene una accertabile traccia di sangue negro o africano, indiano occidentale o indiano asiatico; mongoli”. In Alabama qualsiasi “negro o discendente di un negro fino alla terza generazione compresa, anche se un antenato di ciascuna generazione era bianco”. E così anche in Arizona, California, Colorado, Florida, Indiana, Kentucky, Louisiana, Maryland, Missouri, Montana, Nebraska, Nevada, North carolina, North dakota, Oklahoma, ecc.

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“Agnus Dei”, un film sugli stupri sovietici in cui i sovietici non sembrano il problema

Al cinema la Seconda Guerra Mondiale è, ancora oggi, protagonista più che mai. Lo testimonia, ad esempio, la pellicola di Mel Gibson di cui abbiamo parlato ieri. E lo testimonia, tra le altre, una pellicola, pur meno nota, diretta dalla francese Anne Fontaine, proiettata nelle stesse ore in molte sale cinematografiche, “Agnus Dei”. Quella storia – è evidente – non è ancora storia passata e chiusa negli archivi. Ecco perché anche “Agnus Dei”, pur schivando ogni problematizzazione storica dei fatti narrati, forse proprio per questa ragione, non può essere considerato un film del tutto neutrale.

Realizzato con la collaborazione del Polish Film Institute e girato ad inizio 2015, “Les Innocentes” (questo il titolo originale), prendendo spunto dagli scarni scritti del suo diario, racconta l’esperienza di Mathilde Beaulieu, giovane francese volontaria nella Croce Rossa, in missione in Polonia per curare i feriti di guerra francesi. Mathilde, infatti, nel corso della sua attività, entra segretamente in contatto con un convento di suore il cui stupro sistematico e ripetuto compiuto dalle truppe sovietiche ha lasciato molte di loro in stato di gravidanza e bisognose di cure. Ed è proprio questa storia che conquista ovviamente il centro della scena.

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Mel Gibson torna con “Hacksaw Ridge”: il pacifismo coraggioso di Desmond Doss

“Dopo dieci anni l’«infamous» Mel Gibson torna dietro la macchina da presa e con il suo talento di cineasta riesce a far (almeno temporaneamente) dimenticare gli episodi di ubriachezza, risse, esternazioni antisemite e omofobe per cui è noto” (“La Stampa”). “Un film non pacifista su un pacifista” (“Repubblica”). Stando alle recensioni, le premesse per un gran film e per querelle di vario genere nel merito della pellicola e del suo regista c’erano e ci sono tutte. Ma, bisogna dirlo, le aspettative non vengono disattese: “La battaglia di Hacksaw Ridge” (soltanto “Hacksaw Ridge” nel titolo originale), ultimo lavoro di Mel Gibson, nelle sale cinematografiche in questi giorni, è un film certamente da vedere.

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“Parola di Dio”: quando l’attacco alla religione è una scusa per criticare Putin

In Russia, la religione è ovunque. Come negli Stati Uniti, i predicatori si sono impadroniti delle televisioni. La religione è diventata la seconda ideologia ufficiale. Controlla la mente di chiunque. È un dogma caliginoso, che diffonde oscurantismi ovunque. I russi preferiscono avere un leader da seguire, piuttosto che pensare con la propria testa. Anche se la religione è separata dallo Stato, in realtà la religione ortodossa controlla ogni livello della società”. A rilasciare queste dichiarazioni in un’intervista è Kirill Serebrennikov, regista russo di origini ebraiche che ha diretto “Parola di Dio”, uscito nelle sale cinematografiche italiane lo scorso 27 ottobre.

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“In guerra per amore”, un Pif niente male: nel film americani collusi coi boss

E’ stato infine necessario attendere la seconda pellicola di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, per raccontare al grande pubblico che gli americani, con la sbarco in Sicilia del ’43, consegnarono il potere nelle mani della mafia, in cambio di una conquista facile ed indolore. E nonostante l’ironia che fa da sfondo, il messaggio è diretto e centrale più che mai, senza sconti. Di questo non si può che render merito al giovanissimo conduttore ed attore siciliano che, pur omaggiando il patriottismo e l’onestà del capitano Scotten, ucciso in Sicilia dopo aver scritto una lettera per denunciare il fenomeno, punta l’indice dritto contro la Casa Bianca e l’allora presidente Roosevelt, colpevole di aver fatto scarcerare moltissimi criminali facendoli passare per prigionieri politici, assegnando poi ai boss locali ruoli di responsabilità, quando non la sindacatura di molti comuni siculi a seguito dell’invasione.

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“Il diritto di uccidere”: nei cinema da fine agosto l’ultima pellicola di Gavin Hood

diritto-di-uccidereNon sarà il film dell’anno, ma non è da sottovalutare. “Il diritto di uccidere”, produzione inglese, anno 2015, diretto dal regista premio Oscar sudafricano Gavin Hood, titolo originale “Eye in the sky” (“Occhio nel cielo”), è sbarcato nelle sale italiane il 25 agosto appena trascorso e forse non sbancherà al botteghino, ma ha almeno un paio di meriti: nonostante si concentri praticamente su un singolo episodio, risulta scorrevole e, soprattutto, pur nella sua estrema semplicità, nasconde spunti interessanti.

È un film asciutto, diretto, ‘monotematico’, 102 minuti di confronto che sono, in realtà, un confronto tra due mondi, oltre che un continuo invito a scegliere: “tu cosa faresti?

Ma, ancor prima della scelta, ancor prima del dilemma morale, che il regista sembra lasciare aperto, c’è qualcosa che, al contrario, si percepisce in modo abbastanza chiaro e che, probabilmente, ruba la scena ed il senso a tutto il film: una sorta di presa in giro del sistema democratico, o meglio, della sua macchinosità, artificiosità e lentezza, del suo scadere nella dittatura del qualunquismo.

Siamo a Nairobi, in Kenya. Con l’appoggio delle forze speciali locali, il colonnello inglese Katherine Powell (Helen Mirren) ha individuato, in un quartiere controllato dai fanatici di Al-Shabaab, alcuni tra i terroristi più ricercati dell’area, tra i quali una cittadina inglese e due cittadini americani. L’unica soluzione è utilizzare un drone per sganciare un missile di precisione. La discussione sul calcolo degli effetti collaterali e, soprattutto, sulle conseguenze legali e politiche dell’operazioni, mediata dal generale Frank Benson (Alan Rickman), coinvolge ministri, sottosegretari, procuratori, riuniti in ‘cabina di comando’ o in collegamento telefonico, in un rimpallo continuo di responsabilità, timori, burocraticismi, moralismi, emotività e ragionamenti interessati.

Il colonnello non ha dubbi: considerato il pericolo reale in caso di mancato intervento, l’operazione è più che giustificata. Il generale è dalla sua parte: “Non provi mai ad insegnare ad un soldato quanto può essere disumana la guerra”, risponderà, sul finire, alla ‘pacifista buonista’ in lacrime Angela North (Monica Dolan).

È la distinzione tra le chiacchiere e l’azione. Il rimpianto, il dolore e il dubbio sono gli stessi. Ma se da un lato c’è il moralismo, dall’altra c’è il coraggio di prendere decisioni, oltre l’emotività ed il sentimentalismo. Se da un lato ci sono il pianto e le urla, dall’altro c’è un consapevole silenzio ed una autorevole e seria compostezza. Dunque, la risolutezza contro il cerchiobottismo e lo scaricabarile di stampo democratico, tanto che, in qualche modo, nella costruzione appositamente surreale ed esasperante del processo decisionale, si intravede, volontaria o meno, una fredda satira contro la sovranità diffusa del nostro modello politico.

Un film, in breve, rischioso sotto ogni aspetto, che invece supera di sicuro la sufficienza dal punto di vista tecnico e che, grazie ad un discorso implicito condivisibile – da non interpretare ovviamente in maniera troppo forzata -, intrecciato ad un discorso morale lasciato alla coscienza individuale, senza dunque la pretesa di tracciare verità assolute, possiamo perciò pacatamente consigliare. D’altronde, alle eventuali esitazioni dovute all’ambientazione della pellicola, con il rischio atteso di trovarsi occidentali buoni da una parte o islamici cattivi dall’altra, si può tranquillamente rispondere che si tratta di un approccio, in questo caso, fuori luogo. A parte l’aspetto finemente satirico di alcuni passaggi, infatti, come abbiamo visto, tutto il contesto appare in realtà come un semplice strumento narrativo con la funzione di parlare d’altro. Niente di tutto questo schema è messo in discussione perché, semplicemente, niente di tutto questo è al centro dell’ultimo lavoro di Hood, regista che anche questa volta si diverte a comparire in veste di attore.

Emmanuel Raffaele, 7 set 2016

“L’ultimo lupo”, dopo sette anni di attesa ecco la pellicola (in parte deludente) di Annaud

ultimolupo3Prima di tutto andate a vederlo. Non è una pellicola che lascia senza fiato e non è tutto quello che vi potreste aspettare ma ne vale la pena.

“L’ultimo lupo” di Jean Jacques Annaud, già regista de “Il nome della rosa” e di “Sette anni in Tibet”, costato ben sette anni di lavorazione e circa 38 milioni di dollari, seguito da 480 tecnici, addestratori e partecipato da circa 200 cavalli, mille pecore e una ventina di lupi, ha l’ambizione di un film epico ma non ne possiede l’impronta, mantiene alta l’attenzione ma lascia la sensazione che manchi qualcosa, alterna dialoghi intensi a passaggi in cui la sceneggiatura è deludente.

«Con la morte del saggio Bilig scompariva la steppa che avevo conosciuto», chiosa il protagonista, riecheggiando fin troppo una scena analoga de “L’ultimo samurai” sulla fine del Giappone tradizionale e, soprattutto, scoprendo le carte sugli obiettivi narrativi del film.

Ma “Wolf Totem” (questo il titolo originale) è, in realtà, un’opera che arriva fino in fondo senza intoppi e però senza neanche vera suspense, senza troppi drammi, senza grandi effetti scenici ed armato soltanto di tanto realismo descrittivo e qualche punta di misticismo.

In parte un merito, se non fosse per le aspettative create da una presentazione che lascia immaginare qualcosa di più di un semi-documentario ecologista sul delicato equilibrio della steppa mongola.

«Hai catturato un Dio e ne hai fatto il tuo schiavo», rimprovera eloquente il vecchio Bilig al giovane Chen Zen, studente di Pechino ai tempi della “Grande rivoluzione culturale” maoista (siamo nel 1967), inviato tra le tribù della Mongolia per insegnare loro a leggere e scrivere, che però si innamora dei lupi e decide di contravvenire alle legge che ne impone l’uccisione, allevandone uno, inizialmente in segreto.ultimolupo1

Questa la frase più significativa del film, la stessa che in effetti campeggia nelle locandine su cui posa, fiero, un lupo.

«I lupi», prosegue il saggio capo, «vogliono sfamarsi da soli, è una questione di dignità, il lupo è un guerriero. E se privi un lupo della sua fierezza, se gli impedisci di uccidere, quale guerriero sarà mai?».

Frammenti di dialoghi che regalano quel minimo di contenuti necessari ad un film che, per il resto, non indugia troppo sul contesto storico, né sulla vita e le credenze dei mongoli, lasciando un po’ l’amaro in bocca quando ci si rende conto che l’epica prospettata si riduce a celebrare la figura del lupo in senso animalista, senza metterlo realmente in relazione con la civiltà mongola, che pure dovrebbe esser quanto meno coprotagonista della pellicola.

Manca forse questo, manca fortunatamente un po’ di retorica, manca l’approfondimento psicologico dei personaggi, manca il ritmo, manca una vera e propria trama, con un plot fin troppo circolare, al punto che Chen Zen, in chiusura, annuncia: «era il momento di ridiventare il ragazzo di città che non avevo mai smesso di essere».

Uscito nelle sale lo scorso 26 marzo, poco più di un mese dopo Cina e Francia, dove il film è stato prodotto, la pellicola è basata sul secondo libro più letto nella storia della Cina, “Il totem del lupo” di Jiang Rong.

«La voglia di uccidere li tortura ma non sprecheranno questa occasione per avventatezza. I lupi sono organizzati. Attendono il momento giusto. E obbediscono alla volontà del capobranco». E, soprattutto, sono creature libere, capaci di sottomettersi soltanto al Tenger (Il Cielo), nemici da rispettare come ogni avversario di valore.

Sacralità guerriera, libertà aristocratica, religiosità “pagana” negli insegnamenti di Bilig, che spiega: «I mongoli non sotterrano i propri morti, restituiscono alla steppa la carne con cui ci ha nutrito».

La sua morte è la fine simbolica di una civiltà. Il lupo e Chen Zen rimangono testimoni di un tempo, di cui però non sono stati protagonisti. E l’esperienza diretta diventa memoria.

Il lupo allevato dal giovane studente, unico sopravvissuto alla strage tra i lupi della steppa, tornato impetuosamente alla sua natura, è una fiaccola ancora accesa pronta a riappiccare il fuoco della sua tradizione guerriera. Ed allo stesso modo torna nel suo mondo il “padrone” Chen Zen.

“Nemici”, diversi per natura, nonostante entrambi si siano “contaminati” con un’identità che non gli appartiene. A ciascuno la propria vita, la propria essenza. Inestirpabile. Così Chen Zen non sposa la donna indigena di cui è innamorato, Bilig non sopravvive al cambiamento, il progressismo non cede alla tradizione.

E ad ogni passaggio, ad ogni ciclo, ad ogni contaminazione, si perde qualcosa di quello che fu.

Ed il lupo stesso destinato a rifondare la sua stirpe guerriera è pur sempre un lupo che ha perso un po’ della sua natura selvaggia, della sua identità. Niente sarà come prima. In attesa di un nuovo ciclo aureo.

ultimolupo4«Comandare non contempla l’essere amati, a volte si deve obbedire a degli ordini, anche contro il nostro cuore», commenta il delegato governativo dopo aver fatto uccidere l’ultimo branco di lupi, con una frase da cui traspare un determinismo che, forse, non è rivolto tanto a giustificare moralmente il burocraticismo ed il materialismo di ispirazione progressista e matrice comunista alla base del “disordine” che egli rappresenta, quanto a collocarlo metastoricamente in un fase in cui la fine è a sua volta preludio ad un nuovo inizio, così come la morte alla resurrezione. E’ necessario che tutto accada, anche il male. Anche il Kaliyuga.