Soltanto pochi mesi fa alcuni attivisti erano riusciti ad occupare la pista del London City Airport per dire che “l’inquinamento è razzista”. Martedì sera, invece, la pista di Stansted è stata chiusa per precauzione a causa di una ventina di attivisti di sinistra che si sono incatenati per impedire il rimpatrio di cento richiedenti asilo provenienti da Nigeria e Ghana. Otto i voli dirottati negli altri aeroporti di Londra ed uno slogan che non lascia spazio a dubbi sulle finalità di chi predica l’accoglienza: “No borders, no nations, stop deportations” (“No ai confini, no alle nazioni, no alle deportazioni”).
londra
Londra, disordini in Hyde Park al grido di “Black Lives Matter”
Londra, 20 lug – Secondo l’Evening Standard, forse in un eccesso di enfasi giornalistica, è stata “la peggiore esplosione di violenza giovanile dalle rivolte del 2011“. Scontri, lanci di bottiglie, vetri rotti e qualche agente di polizia accoltellato in pieno centro, nello storico Hyde Park a Londra, dopo una festa organizzata attraverso i social network.
Centinaia di ragazzi, respinti poi fino a Marble Arch e rimasti qui fino a mezzanotte, hanno creato disordini al ritmo dell’ormai noto slogan “Black Lives Matter“, a partire dal tardo pomeriggio, quando hanno improvvisamente reagito con violenza alla massiccia presenza delle forze dell’ordine, dando il via agli scontri.
Saviano a Londra: legalizzare tutte le droghe. Chi ricicla vuole la brexit
Le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Ma è anche vero che, se errare è umano, perseverare è diabolico. Per commentare Roberto Saviano, il re delle banalità, nuova icona della sinistra, ci affidiamo anche noi ai luoghi comuni: legge del contrappasso. Le ultime sparate le aveva fatte contro Salvini, paragonando il suo libro a quello di Hitler, visto che ultimamente l’antifascismo è il suo hobby preferito: fa molto social e va bene per ogni stagione. Invece ieri, a Londra, ospitato dal King’s College per un dibattito organizzato dalla Italian Society con il giornalista investigativo Misha Glenny, già collaboratore del Guardian e della Bbc, il tema principale sono stati i suoi libri sul crimine organizzato ed il business della droga: il famosissimo “Gomorra”, che ha fornito lo spunto per il film e la serie televisiva, ed il più recente “Zero Zero Zero”, sul traffico internazionale di stupefacenti (2013).
«Per me si dovrebbero legalizzare tutte le droghe», ha dichiarato il giornalista, entrato poche ore fa in polemica con il senatore verdiniano Vincenzo D’Anna, critico nei confronti del mantenimento della sua scorta – per la cronaca, Saviano, pur affermando di voler essere libero al più presto, se l’era presa parecchio. La proposta di legalizzare la cannabis, così come la cocaina e tutto il resto, per risolvere il problema del crimine organizzato che ci specula, non è l’unica “perla” della giornata. Ma, per inciso, ci chiediamo se – questioni di merito a parte – si possa davvero pensare che, per sconfiggere organizzazioni come la mafia, la camorra o altre organizzazioni internazionali, che esistono prima della cocaina ed hanno dettato legge da sempre attraverso ogni tipo di commercio illegale, il gioco, la corruzione, attraverso gli appalti, attualmente in Italia anche attraverso l’immigrazione, possa essere sufficiente legalizzare uno dei loro business, seppur forse il più grosso. Certo sarebbe un gran colpo, ma la questione è ben altra. E Saviano dovrebbe saperlo. Ma è fatto così. Fin quando prova a fare il giornalista investigativo ci potrebbe anche stare simpatico. Solo che poi prende iniziative, fa di testa sua, si butta sulla politica e sulle sue «congetture» (parole sue!) come quella sul Brexit appunto: «quelli che riciclano soldi sporchi sono gli stessi che portano avanti la battaglia per il Brexit». Ebbene si, l’ha detto. Ma questo – breve parentesi – è solo una dei tanti episodi di quella che nel Regno Unito è stata ribattezzata “strategia della paura”, portata avanti dai grandi mezzi di informazione e da personaggi di spicco sul piano internazionale per convincere gli inglesi a votare per rimanere nell’Unione Europea il prossimo 23 giugno. Per il resto, questioni condivisibili nell’ambito del dibattito sui paradisi fiscali, il riciclaggio ed il ruolo dei “mediatori”. «L’Inghilterra», ha affermato, «è il paese più “corrotto” al mondo riguardo la provenienza dei capitali finanziari, perché attira tutti i capitali sporchi attraverso le sue isole offshore». «Il 90% delle compagnie proprietarie di immobili», ha aggiunto, «hanno sedi nei paradisi fiscali, che servono non tanto ad evadere ma a nascondere il denaro ed a celarne la provenienza. Mentre i “facilitatori”, la nuova borghesia londinese fatta perlopiù di commercialisti, gestiscono il denaro ma non sono responsabili della loro provenienza, risultando quindi difficilmente incriminabili, tanto più che in Inghilterra è molto difficile dimostrare il riciclaggio». Saviano, un consiglio: più libri e meno social.
Emmanuel Raffaele, 28 mag 2016
“The Brothers”, la gang islamista che imperversa nelle prigioni di Londra
La testimonianza esclusiva riportata ieri dall’Evening Standard parla della prigione di Belmarsh come di “un campo di addestramento jihadista nel cuore di Londra” ma, a parte il racconto inquietante di suo, un dato balza subito all’occhio e, di per sé, fa già notizia: su una popolazione di musulmani pari a circa il 12% nella capitale inglese, la popolazione carceraria di fede islamica nelle strutture londinesi va dal 30% al 40% ed oltre. Una sproporzione che è già una risposta alla questione integrazione ed al buonismo sull’argomento. Ma la testimonianza, che fa seguito ad un allarme in atto da mesi ed ai fischi che si erano visti anche nel carcere parigino riservati dagli altri detenuti all’attentatore “belga” Salah Abdeslam, colpevole di non essersi fatto esplodere, è la conferma che ci troviamo di fronte ad un problema serio, su scala europea, che le autorità sottovalutano e che le politiche boldriniane non aiutano certo a fronteggiare con la necessaria durezza. “Appena arrivato a Belmarsh nel 2014, è giunta notizia che Mosul in Iraq era caduta nelle mani dello Stato Islamico e la prigione è ‘esplosa’”. Urla di gioia, colpi sfrenati contro le sbarre, canti, “Allah Akbar” e promesse di conquista. “Sembrava una grande festa andata avanti indisturbata per molte ore”, racconta al quotidiano inglese un ex detenuto musulmano, 27 anni, laureato, rilasciato da poco dopo esser stato dentro per questioni legate a frodi bancarie (“ho firmato documenti per conto di altri”, dichiara).
“Gli agenti penitenziari sembravano non far nulla, lasciando i nuovi detenuti come me con l’impressione che a comandare realmente non fossero i secondini ma un terrificante gruppo islamista radicale conosciuto come “the Brothers” (“i Fratelli”) o “the Akhi”, che in arabo significa fratello”. Il ministro della Giustizia non riferisce con precisione le cifre, ma il giornale parla di un numero di terroristi interni alla struttura superiore alle ottanta unità (nel 2006 erano una cinquantina) su una popolazione islamica pari a circa il 30% dei detenuti (in altre prigioni della città, come anticipavamo, le cifre salgono di oltre il 10%). Nell’ala in cui era detenuto il testimone in questione, su circa duecento persone, circa la metà erano musulmane, riferisce, con un nocciolo duro di circa venti persone trattate come “celebrit” all’interno della prigione. All’inizio, spiega l’informatore, in quanto musulmano, è stato aiutato, gli è stato offerto sostegno. Dopo, però, è iniziata la propaganda e, di fronte alla sua esitazione, l’isolamento. Niente in confronto al trattamento subito da alcuni detenuti cristiani, fatti oggetto di aggressioni fisiche e maltrattamenti quando l’inferiorità numerica oltre che il potere del gruppo rendeva la cosa a dir poco agevole.
Una radicalizzazione visibile, immediata, che i sei imam del carcere assecondavano o preferivano non affrontare. Una sorta di tacito assenso anche rispetto a chi annunciava, vantandosi, di voler partire per la Siria o l’Iraq. “Tre quarti di chi veniva radicalizzato”, racconta il testimone, “facevano parte di gangs ed erano dentro per crimini violenti o droga. Loro capivano che la gang principale a Belmarsh erano i Fratelli e che avevano bisogno della loro protezione. Ma questo dava anche loro un senso di identità“. “Mi sembrava di essere un intruso in un campo di addestramento jihadista“, commenta esasperato, lamentando la situazione analoga di difficoltà e paura vissuta da altri detenuti di fede musulmana costretti al silenzio anche grazie ad un sistema che, secondo lui, non isolando gli estremisti, ne supporta l’azione di propaganda e predominio. Dopo cinque mesi a Belmarsh, viene spostato ad Highpoint. “Ero là durante gli attacchi a Charlie Hebdo”, racconta. Ed anche lì scene di giubilo in seguito agli attentati. “Il governo”, conclude, “ha speso tantissimi soldi nel programma di prevenzione contro il radicalismo, ma ha ignorato che il più grande campo di addestramento jihadista nel Regno Unito è proprio qui a Belmarsh nel cuore di Londra”.
Emmanuel Raffaele, 18 mag 2016
Musulmano di origini pakistane, ecco il nuovo sindaco di Londra
Sadiq Khan ce l’ha fatta. E, a parte il caos che non ti aspetti dalla proverbiale efficienza britannica registratosi nel quartiere di Barnet, con liste elettorali incomplete e centinaia di elettori che in un primo momento non hanno potuto esprimere il proprio voto (tra questi Ephraim Mirvis, rabbino capo delle Congregazioni ebraiche unite di tutto il Commonwealth), tutto è andato come previsto. Già parlamentare e, dunque, non nuovo ai successi elettorali, per lui l’ultima sfida è stata senz’altro quella mediaticamente e storicamente più importante: conquistare la City Hall, diventare il primo sindaco mussulmano di Londra.
Laburista, favorevole alla permanenza all’interno dell’Unione Europea, padre di due figli, avvocato per i diritti umani, il quarantacinquenne di origini pachistane, cresciuto nelle periferie londinesi, quinto di otto figli di un conducente d’autobus, ha infatti vinto sul rivale conservatore di origini ebraiche Zac Goldsmith con il 56,8 % dei voti, contro il 43,2 % del suo avversario, 1.310.143 voti per l’uno e 994.614 per l’altro. Una maggioranza conquistata con i “voti di riserva” a disposizione dei votanti della capitale britannica (5.739.011 milioni, appena il 45,6 % degli elettori, molti di più, in ogni caso, rispetto al 38,1 % del 2012), che in prima battuta avevano assegnato ai due contendenti percentuali, rispettivamente, del 44,2 % per Khan e del 35 % per Goldsmith, mentre in seconda hanno assegnato al candidato laburista ben il 65,5 % delle seconde preferenze (soltanto il 34,5 % il suo avversario). Il sindaco che governa l’area della Grande Londra – istituzione esistente dal 2000, ricoperta per i primi due mandati dall’indipendente poi laburista Ken Livingstone, oggi al centro delle polemiche sull’antisemitismo nel partito, e per altri due mandati dal conservatore Boris Johnson, in prima linea nella campagna referendaria per lasciare l’Unione Europea, deciso a scalare il partito e diventare primo ministro sostituendo il conservatore David Cameron, favorevole invece alla permanenza nell’Ue – si sceglie infatti col metodo del voto suppletivo. In pratica, gli elettori hanno a disposizione due voti di preferenza, dei quali uno è appunto di riserva e viene conteggiato soltanto nel caso nessuno raggiunga la maggioranza assoluta. E così, grazie ad un sistema elettorale che evita il turno di ballottaggio, unico nel Regno Unito a permettere di scegliere direttamente un sindaco, il candidato favorito fin dalla vigilia in quanto rappresentante delle tantissime e forti “minoranze” di Londra, ha sconfitto il candidato repubblicano in una campagna elettorale incentrata soprattutto sul tema della casa, della sicurezza ed, a seguire, da quello dei trasporti e della tassazione. Volutamente poco spazio è stato dato, invece, alla questione “brexit”, che i candidati, con visioni del tutto opposte in merito, hanno preferito non trasformare in strumento divisivo per la loro campagna elettorale, che avrebbe dato al voto amministrativo un significato probabilmente troppo politico.

Khan ce l’ha fatta, nonostante lo “scandalo” scoppiato a pochi giorni dalle elezioni all’interno del partito laburista, accusato strumentalmente da più parti di ospitare troppi personaggi a vocazione antisemita. Ce l’ha fatta nonostante la campagna di Goldsmith che ha tentato di mettere in dubbio l’affidabilità del candidato mussulmano, ricordando i contatti e gli eventi insieme ad esponenti del fondamentalismo islamico, tanto che l’Evening Standard era giunto a scoprire la sua partecipazione ad un convegno in cui le donne erano costrette ad ingresso e sistemazione separata dagli uomini (non male per uno che si presenta come “femminista”). A suo dire favorevole ai diritti gay, al contrario della maggioranza dei mussulmani del Regno Unito, Khan ha promesso di costruire almeno 80mila case popolari per rispondere ad un’emergenza che a Londra si fa sentire, se possibile, più che altrove anche a causa di affitti tra i più cari del mondo. Il neo-sindaco promette inoltre di pedonalizzare Oxford Street, ampliare le restrizioni contro le emissioni nelle zone uno e due, piantare due milioni di alberi e congelare le tariffe dei trasporti, in polemica col rivale che ha giudicato la promessa pericolosa per gli investimenti pubblici nel settore, nonostante avesse a sua volta garantito di non aumentare invece la cosiddetta “council tax”, iniziativa ritenuta impraticabile dal candidato laburista. «Quando i miei genitori sono arrivati», ha dichiarato Khan in un’intervista tempo fa, «qui c’erano cartelli con su scritto ‘No neri, no irlandesi, no cani’. Con la generazione successiva, io ho sofferto abusi e ho lottato per questo e venivo insultato. Le mie figlie vivono a cinque minuti dalla zona in cui sono cresciuto e non hanno mai subito discriminazioni razziali. Questo è il progresso che è stato fatto in trent’anni. Questo è il bello di Londra». Il neo-sindaco aveva anche osservato: «Quando ero più giovane non si vedevano donne con l’hijabs o il niqabs, neanche in Pakistan». Una radicalizzazione dell’Islam, dunque, che egli non riconosce come parte integrante della cultura mussulmana. Cresciuto in una famiglia non certo benestante, Khan proprio su questo ha costruito il suo punto di forza contro un avversario appartenente invece ad una famiglia ricca e potente, puntando contemporaneamente a proporsi come «il sindaco di tutti», spingendo sul suo partito contro le “derive antisemite” e criticando addirittura apertamente il leader Jeremy Corbyn – in questi giorni bersagliato da vignette e satira di ogni tipo – per non aver fatto abbastanza per arginare il fenomeno. «Mi piace il fatto che Londra sia la casa di 140 miliardari. Sono contento che ci siano 400.000 milionari», ha affermato durante la campagna elettorale Khan.
Ma lui, dal Pakistan, questa città di super ricchi, ormai centro della finanza mondiale, l’ha conquistata, segnando simbolicamente per sempre la trasformazione sociale della grande metropoli un tempo europea. Zac Goldsmith, che di quel mondo è un po’ l’emblema, preparato al risultato, ha incassato senza batter ciglio. Nessun impero cade quando è ancora in forze: la corrosività e l’evanescenza del mondialismo non possono che fare da ponte all’affermarsi di identità forti, laddove quelle locali sono smarrite. Londra non poteva regalarci sfida migliore per raccontarci il nostro futuro. Perché, al di là delle persone, il voto a Goldsmith e Khan oggi rappresenta tutto questo.
Emmanuel Raffaele, 7 mag 2016
A Londra apre “Bunyadi”, dress code: via i vestiti, a cena nudi
Una
cena al ristorante completamenti nudi. Se proprio l’esperienza vi incuriosisce, non disperate perché, a breve, basterà una gita a Londra per soddisfare il vostro desiderio. Aprirà infatti a giugno, e soltanto per tre mesi, il “Bunyadi“, un ristorante, spiegano i promotori dell’iniziativa, «libero dalle costrizioni della vita moderna». Lo stile “nature”, infatti, non sarà l’unica caratteristica del locale, che mira a proporsi come esperienza totale: no all’utilizzo di prodotti chimici e coloranti, zero elettricità, niente telefoni cellulari e ingredienti rigorosamente naturali per la preparazione di pietanze cotte a legna, servite su stoviglie di argilla fatte a mano e consumate con posate commestibili. Sullo sfondo, un arredamento altrettanto minimal, con le canne di bamboo a separare i vari ambienti e due spazi principali: uno utilizzato da chi intende tenere addosso i propri abiti e l’altro da chi sceglierà di liberarsi anche di quelli nell’apposita changing room. A darne l’annuncio Seb Lyall, già ideatore dell’ABQ, cocktail bar londinese ispirato alla famosa serie “Breaking Bad”. Se la cosa fa per voi, dunque, fate in fretta a prenotare; la lista d’attesa si prospetta abbastanza lunga. Magari la location potrebbe tornarvi utile a rompere il ghiaccio al vostro prossimo primo appuntamento; quanto alle cene di lavoro, invece, forse meglio evitare. In ogni caso, non dimenticate: vietato scattare fotografie.
Checco Zalone a Londra: “noi italiani campioni nel buttarci merda addosso”
A fine proiezione, effettivamente, restava poco da aggiungere. “Quo vado?”, l’ultimo film di Checco Zalone, visto da circa un quarto degli italiani e record storico di incassi, rischia facilmente di essere banalizzato da interpretazioni superficiali, pregiudizi negativi o da analisi che ne dimenticano l’aspetto fondamentale: si tratta di una commedia. Sarà stato questo, il clima piovoso di ieri o una sorta di timore reverenziale di fronte alla platea che ha assistito alla presentazione della pellicola a Londra, presso il cinema Genesis, grazie all’organizzazione di CinemaItaliaUk, ma ieri Luca Medici, più conosciuto come Checco Zalone, è stato decisamente di poche parole.
“Noi italiani siamo campioni nel buttarci merda addosso. Ma, in realtà, qualche pregio ce l’abbiamo”, ha però osservato, sottolineando l’errore nell’interpretare il film come una satira cattiva contro l’italianità che, se pur non viene assolta, viene però senz’altro valorizzata e ripulita dalla pellicola diretta da un Gennaro Nunziante ieri molto più loquace dell’attore pugliese. Visibilmente orgoglioso, annunciando il tour in circa ottanta paesi alle centinaia di italiani ed ai pochi inglesi presenti in sala, Nunziante ha evidenziato lo stupore dei produttori americani, interessatissimi al fenomeno Zalone. Ma, dopo aver anticipato l’intenzione di fare un nuovo film insieme, Checco ha avuto anche modo di raccontare la telefonata ricevuta dal premier Renzi, commentando poi cinico: “è un politico, bravo a salire sul carro del vincitore”. Genuinamente in imbarazzo per il suo inglese scolastico, Luca Medici ha aggiunto: “noi italiani abbiamo l’educazione”. Una parola semplice, ribadita spesso nel film, a cui Zalone sembra attribuire un senso particolare, importante: “per me è buon senso”, spiega. Educazione è la parola che sfida il nordico legalismo sfrenato in diverse scene del film, educazione è richiamo ad una società fatta ancora di persone e di relazioni di vicinato, richiamo ad un senso di comunità che si perde in quella triste forma di “senso civico” in cui ogni conoscenza immediata ed ovvia degenera in regolamentazione, poiché il prossimo è, ormai, pressoché un estraneo.
Checco Zalone fa anche satira. Ma non è satira anti-italiana. Prende in giro l’italiano medio quanto il radical chic; la presunta apertura mentale del nord Europa, con gli eccessi del multiculturalismo e dell’egualitarismo portato al paradosso, ma, al tempo stesso, non fa sconti alla mentalità bigotta, alla burocrazia conservatrice da Prima Repubblica, al parassitismo. L’Italia, sembra dire, non è la mentalità piccolo borghese, che ha paura di rischiare e di perdere i suoi miseri privilegi. L’Italia è quel senso di comunità, è, “dopo tanto buio nordico, la luce del Sud”, ma la sua rinascita passa per un ritrovato valore del rischio e del dono di sé. È per questo che la satira, in chiusura, abbandona il piano orizzontale e riparte dalla scena iniziale. “Ognuno ha un talento, tu cosa vuoi fare da grande?”, chiedeva il maestro in apertura al piccolo Checco. Lui, impregnato di cultura piccolo borghese, rispondeva: “Io voglio fare il posto fisso”. Ma, infine, “la storia della sua anima”, che il capo tribù africano gli chiedeva di raccontare, porta ad una conclusione che prevede un distacco dai due modelli messi a confronto e presi in giro per tutta la durata della pellicola, giungendo ad un cambiamento che è ‘verticale’. Checco ritrova la sua italianità ma non è più un piccolo borghese. Sceglie il rischio, il dono, come dicevamo; sceglie, insomma, di superare l’individualismo ed il materialismo. Ci sembra, ma potremmo sbagliarci, che in questo vada molto al di là del buonismo spiccio, così come nella satira va indubbiamente molto al di là del politicamente corretto, ragion per cui tale Davide Turrini su “Il Fatto Quotidiano” parlava a sproposito di “minoranze sputtanate”. Il che è un gran merito. Insieme al dato oggettivo che più di tutti permette di valutare una commedia: il film fa ridere. Fa ridere, a volte sorridere, e lo fa in maniera elegante. Senza forzature, battute trash, senza risultare volgare, banale o ripetitivo. Il personaggio è sempre lo stesso ma la struttura e la narrazione gli consentono di utilizzare schemi comici sempre diversi. Non è qualche buona trovata qua e là a far ridere in questo come negli altri suoi film, ma una struttura comica di per sé, un impianto narrativo decisamente azzeccato. E gli applausi di un pubblico sicuramente eterogeneo in quel di Londra molto probabilmente ne sono la conferma.
Emmanuel Raffaele, 17 apr 2016
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Regno Unito, sempre più italiani diventano sudditi di Sua Maestà
Aumentano del 22% gli italiani che vogliono diventare cittadini britannici. Ma il dato non è isolato. Il numero di richieste dei cittadini europei per avere la cittadinanza inglese – per la quale sono sufficienti appena sei anni di residenza permanente, un test e ben mille sterline – ha infatti subito un insolito balzo in avanti negli ultimi sei mesi dello scorso anno, facendo registrare un +25% in seguito ai timori connessi all’eventualità Brexit. La maggior parte delle richieste, in realtà, arrivano dai cittadini bulgari (+70%), seguiti da ungheresi (+39%), polacchi (+38%), tedeschi (+23%). Ultimi vengono italiani e francesi (+17%).
Complessivamente, negli ultimi tre mesi dell’anno, le richieste sono state infatti ben 5245, mentre nel trimestre precedente si erano fermate a 4179. In particolare, come accennato, le richieste da cittadini dell’est Europa sono passate da 1810 a 2433, numeri certamente inferiori rispetto all’incremento della percentuale italiana e che mostrano una differenza sensibile nell’approccio all’eventualità Brexit e, probabilmente, anche un tipo differente di immigrazione. D’altra parte, soltanto a Londra gli italiani potrebbero superare il mezzo milione, facendo della capitale britannica la città “italiana” più grande al di fuori del nostro paese, superando addirittura Buenos Aires. Stando infatti ai dati non ufficiali (e probabilmente anche abbastanza prudenti) gli italiani ufficialmente residenti a Londra sarebbero 250mila e per ognuno ce ne sarebbe almeno un altro non ancora residente ma qui per lavoro in maniera relativamente stabile. Un tipo di immigrazione che ha registrato un exploit negli ultimi anni e che, probabilmente, è ancora meno “radicata” rispetto agli arrivi da paesi in cui il reddito medio era molto più basso di quello inglese ben prima che in Italia la crisi economica giungesse ai livelli attuali. Resta interessante, in ogni caso, registrare il dato, certi che, a “bocce ferme”, il numero degli italiani in questa speciale e non felicissima classifica non smetterà di aumentare. Altrettanto interessante notare l’impatto della discussione sulla Brexit, soprattutto sui quasi tre milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito, nonostante le autorità inglesi tendano a rassicurare coloro che già lavorano in Gran Bretagna e nonostante l’ipotesi Brexit non sia poi così realistica.
Marco Travaglio, fenomenologia del Grande Inquisitore
Parte come non avremmo mai voluto partisse lo spettacolo teatrale di Marco Travaglio al Leicester Square Theatre di Londra: un minuto di silenzio per gli attentati avvenuti poche ore prima a Bruxelles. Dopo di che “Slurp!”, recital che prende spunto dall’omonimo libro del direttore de “Il Fatto Quotidiano”, pubblicato da Chiarelettere nel 2015, prende il via e va in scena Mussolini. Proprio lui, il Duce, che evidentemente non passa mai di moda. D’altronde, al momento di accedere in sala, controllo del biglietto e poi ti ritrovi in mano l’invito a trascorrere il 71° anniversario della “liberazione” al “Marx Memorial Library” insieme ai partigiani dell’Anpi, onnipresenti anche a Londra, per la proiezione – in occasione degli ottant’anni della guerra civile spagnola – del documentario di Daniel Burkholz, “No Pasaran”. Per Travaglio, sedicente anticomunista, nessun problema. Presenza istituzionale annunciata, non nuova alle iniziative antifasciste, Giulia Romani, console presso il Consolato Generale d’Italia a Londra.
Partigiani a parte, Travaglio parte con Mussolini ma prende di mira Renzi e, insieme all’attrice Giorgia Salari, fondamentale nel dare consistenza scenica allo show, danno lettura delle cronache giornalistiche in maniera alternata sul Duce e poi su Renzi, sottolineando le forzature da parte dei giornalisti di ieri e di oggi nel descrivere le doti insuperabili dei potenti. Con la differenza, aggiunge Travaglio, che Benito Mussolini, quanto meno, non mancò di segnalare personalmente alcuni eccessi ai diretti interessati. “Il giornalista italiano”, racconta il cronista piemontese dal palco, “non cambia idea, cambia direttamente padrone” e la funzione dei giornali in Italia è pressoché una sola: “coprire le menzogne dei potenti”. “Dopo il crollo della Dc”, prosegue, “ci fu una vera e propria transumanza, tutti diventarono comunisti, poi passarono con Craxi, poi coi magistrati di Tangentopoli”, e così via con Berlusconi, Prodi, Letta e, infine, Renzi. “Il giornalista italiano”, osserva, “è un sottoprodotto dell’intellettuale nato a corte”. Cita Sofri, Capanna, Scalfari insospettato sostenitore di Craxi, Vespa e Feltri al tempo de “L’Indipendente”, entrambi infatuati di Di Pietro e della magistratura. E cita, soprattutto, Giuliano Ferrara, il bersaglio preferito che, con i suoi ripetuti cambi di casacca, dalla sinistra extraparlamentare al tintinnio delle manette di “Mani Pulite”, dal berlusconismo estremo agli elogi per tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, finisce per rappresentare un po’ l’intera categoria di quelli che definisce “scudi umani a mezzo stampa, il cui segreto è non avere una reputazione”.
Giornalisti di regime, pronti sempre a saltare sul carro del vincitore, con una “prosa zuccherosa” che non lesina odi a chi detiene il potere in cambio delle briciole e che, per farlo, non si limitano a distorcere la verità, ma all’occorrenza la inventano. Quanto all’informazione ed alla sua collusione col potere, è indubbio che Travaglio centri il bersaglio, basti pensare all’intoccabilità dell’ex presidente della Repubblica Napolitano, autore di un vero e proprio “golpe bianco” secondo il giornalista divenuto noto ai più in seguito al cosiddetto ‘editto bulgaro’ lanciato da Berlusconi per allontanare dalla televisione pubblica i suoi ‘avversari’. Anche su Berlusconi e gli interessi personali che ne hanno segnato la linea politica, coperta da un finto idealismo pronto a mutare in base ai sondaggi ed a strategie da piazzista della politica, del resto, ci aveva visto bene. Senza timore di apparire complottista accenna all’esistenza di “poteri che governano occultamente l’Italia”. Ma, proprio il piedistallo su cui continua a porsi, è divenuto col tempo il peggior nemico di se stesso. Dal momento che anche lui che fa continuamente la morale a tutti, dal punto di vista della coerenza politico-giornalistica, di certo un santo non è.
Del resto, anche il giornale del quale è tra i fondatori, per il quale la Costituzione è una sorta di mantra intoccabile manco fosse legge divina, proteso ad un giustizialismo ‘manettaro’ estremamente integralista, è dalla parte delle istituzioni soltanto quando gli conviene. Lo scorso febbraio, ad esempio, nel dare la notizia di un’informativa del Viminale ad uso giudiziario sul conto di CasaPound, improvvisamente l’evidenza dei fatti accertata dai pubblici uffici, ovvero l’uso sistematico della violenza da parte degli antifascisti ed il coinvolgimento dunque forzato del movimento negli scontri, a tutela della propria libertà, suscitava non poca ironia da parte del suo collaboratore. In casi simili gli organi inquirenti non vanno più bene. Se la polizia dichiara che CasaPound si muove “nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo a illegalità e turbative dell’ordine pubblico”, il giornale di Travaglio ha un impulso irrefrenabile e irrazionale a schierarsi dall’altra parte. “Vengono del tutto rimossi”, si legge sul quotidiano diretto dal giornalista piemontese, “i loro tratti violenti, xenofobi e caparbiamente nostalgici. Il termine ‘fascismo’, per dire, non viene mai in quelle seimila battute. E per non dire ’dittatura’, nell’informativa si ricorre all’eufemistico e neutro ‘Ventennio’, di cui si dà acriticamente atto della possibilità di rivalutarne ‘gli aspetti innovativi di promozione sociale’. Alcuni passaggi sono illuminanti e danno l’impressione di una esplicita approvazione”. Scandalo, insomma, come se la verità, pur senza nessuna argomentazione contraria, debba per forza stare dall’altra parte. Le accuse arbitrarie di violenza e xenofobia, evidentemente, non danno troppo fastidio al buon Travaglio, per il quale, d’altronde, non è mai stata indispensabile una condanna o un giudizio definitivo per accusare qualcuno. Un’intercettazione qua, una ‘soffiata’ di là, un’imboccata dalla questura o dall’amico magistrato sono molto spesso più che sufficienti. Una strategia del fango che, anche con il movimento dei ‘Fascisti del Terzo Millennio’ appena citato, il suo giornale ha puntualmente usato, sparando senza problemi persino titoli come questo: “Napoli, 10 arresti tra estremisti di destra. Volevano violentare una ragazza ebrea”. Peccato che questa accusa, come altre riprese dai giornali quasi fossero verità accertate, si sia poi rivelata farlocca. Ma quando si tratta di restituire il favore, il clamore stranamente scema.
“È un Grande Inquisitore, da far impallidire Vyšinskij, il bieco strumento delle purghe di Stalin”, diceva di lui Indro Montanelli, considerato una sorta di maestro da Marco Travaglio, “non uccide nessuno. Col coltello. Usa un’arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l’archivio”. Quando, però, sono i giornalisti berlusconiani ad usare lo stesso strumento, allora la tattica si trasforma subito in “dossieraggio”, “killeraggio” e così via. In merito ai recenti attentati, ha scritto: “Se fossero esseri raziocinanti e non macellai fanatici, verrebbe il sospetto che questi terroristi in franchising sotto la sigla Isis facciano le stragi apposta per far uscire il peggio della nostra cosiddetta civiltà superiore. Tipo Salvini o Gasparri”. Senza difendere Salvini (e tanto meno Gasparri), ma unirsi al coro dello sciacallaggio e poi non dire una parola e considerare normale chi pretende di rispondere al terrorismo con le frontiere aperte non appare così imparziale come lui ama mostrarsi.
Anticomunista cattolico, come lui stesso si è definito in diverse occasioni, si definisce un liberale alla Einaudi o De Gasperi, salvo poi dichiarare il voto per partiti come L’Italia dei Valori, l’esperimento politico fallito di Ingroia, Rivoluzione Civile, o per il Movimento 5 Stelle, che certo col pensiero liberale ha poco a che fare e che hanno certamente poco a che fare anche con le posizioni politiche di figure passate alla storia come Reagan negli Stati Uniti o la Thatcher in Gran Bretagna, per le quali l’acerrimo nemico di Berlusconi ha comunque espresso la sua fascinazione politica. Oggi sparla della Lega e dei suoi elettori, ma ha ammesso di aver votato anche loro alle elezioni politiche del 1996, in chiave antiberlusconiana. Ha il vezzo non troppo ostentato (visto che il suo pubblico è praticamente di sinistra) di definirsi di destra, ma dal liberalismo al giustizialismo manettaro appiattito sulle posizioni di magistrati e giudici di strada ne corre ed è difficile trovare un filo logico. La sua destra, ammette, semplicemente “non esiste. È immaginaria”. E di questo, in effetti, non ne dubitiamo.
Emmanuel Raffaele, 26 marzo 2016
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Show di Travaglio a Londra: “i giornali italiani nascondono le menzogne dei potenti”
Un minuto di silenzio per “i caduti di Bruxelles”, poi si parte. E sono risate – attentato a parte – amare, anche se a scriverne bene quasi ci si vergogna, visto che i protagonisti di “Slurp!” sono i “leccaculo” d’Italia per eccellenza: i giornalisti e il loro rapporto coi potenti. Ma Travaglio, direttore de “Il Fatto Quotidiano”, pur influente, non è certo uno di loro, quindi non ce ne voglia se ci scappa qualche complimento per il recital di cui è protagonista insieme alla brava attrice Giorgia Salari ed ispirato al suo omonimo libro, edito da Chiarelettere nel 2015. Svoltosi grazie all’ottima organizzazione della società di produzione eventi “Tij events”, presso il centralissimo Leicester Square Theatre di Londra, lo scorso 22 marzo, nel bel mezzo della settimana santa, lo show del giornalista è infatti un attacco fortissimo proprio ai ‘sepolcri imbiancati’ della stampa italiana. A quel modo di raccontare i potenti fatto di “prosa zuccherosa”, lodi ai limiti della sottomissione umana e rivolto quindi a quel giornalismo di regime, privo di qualsiasi dignità e coerenza. “Il giornalista italiano”, afferma Travaglio dal palco, “non cambia idea, cambia direttamente padrone”, dunque la funzione dei giornali in Italia è pressoché una sola: “coprire le menzogne dei potenti”.
E non ci sono solo Berlusconi ed i suoi cortigiani, anzi, partendo dalla vecchia Dc per arrivare a Renzi (la ‘nuova’ Dc, dopotutto), spiega Travaglio, hanno leccato a turno un po’ chiunque sia stato al potere; più che equidistanti, “equivicini”, come il volto televisivo Bruno Vespa. Giuliano Ferrara, tra i più bersagliati, è un po’ il refrain dello show: lui, che ad ogni governo, come d’incanto, senza sorprese, si scopre più lealista del re, va a rappresentare una categoria in realtà molto vasta e, con la sua puntuale approvazione e lode di ogni potente, suscita altrettanto puntuali le risate tra il pubblico. Risate che, per la verità, stentano a fermarsi per tutta la durata dell’evento, a testimonianza di un’opera che va leggermente al di là del giornalismo e fa di Travaglio qualcosa di più, o semplicemente qualcosa di diverso: uno dei pochi in Italia capace di fare anche satira di qualità. Il suo punto di forza e, da un punto di vista strettamente professionale, forse anche un po’ il suo limite, infatti, è uno stile che si serve della notizia per attaccare e mettere alla berlina il potente, con soprannomi e prese in giro (il presidente della Repubblica Mattarella, nello show, diventa il “cadaverino” che non parla) mirate probabilmente a compensare quelle lodi eccessive dei giornalisti nei confronti delle quali Travaglio manifesta, giustamente, tutta la sua insofferenza. Una strategia che, se da un punto di vista professionale potrebbe suscitare qualche critica, da un punto di vista pratico, però, diventa probabilmente una necessità di fronte a tanto servilismo. Tra passato e presente, lo spettacolo si apre con un alternarsi di ‘cronache da Istituto Luce’, riprese dai giornali di ieri e di oggi, su Mussolini – descritto come una sorta di superuomo sui fogli dell’epoca – e Renzi – che non è da meno -, evidenziando come, seppur il regime fascista sia ormai andato, la censura (e, soprattutto, l’autocensura) non sia certo espressione tipica soltanto di quell’epoca. Con la differenza, osserva il giornalista, che almeno Mussolini in qualche occasione impose ai suoi di contenersi. È l’istinto umano a leccare il culo al più forte, a saltare sul carro del vincitore, la tentazione rassicurante a conformarsi che, però, applicata al giornalismo, provoca disastri trasformando i giornali nella cassa di risonanza dei politici a cui, invece, dovrebbero fare le pulci per far funzionare bene le cose. L’occhio bionico di Renzi capace di tenere sotto controllo Roma anche a distanza, lui descritto come un grande sciatore (nonostante le cadute a dir poco comiche), il premier multitasking, ma anche l’estasi divina del ministro Maria Elena Boschi che quasi sconvolge Vespa (ed è francamente uno dei pezzi forti dello show), il loden di Monti che racconta di laghi e borghesia operosa (!), la sobrietà del Frecciarossa su cui viaggia la moglie, in breve, le ovvietà e le esagerazioni sui potenti sparate negli articoli o, peggio, a caratteri cubitali nei titoli per pomparne l’immagine: “Donna Clio”, “Donna Elsa”, l’uragano Fornero, il grande Fausto (Bertinotti), il seducente D’Alema, Monti salvatore della patria e tanto, tanto altro ancora. I colpi di lingua della stampa non si contano e, d’altronde, riempiono appunto un intero libro e la ‘sceneggiatura’ di uno spettacolo che ripaga ampiamente il costo del biglietto. Giorgio Gaber, in una strofa di una delle sue canzoni più pregne di significato, “Io se fossi Dio”, letteralmente malediceva i giornalisti: “Compagni giornalisti”, accusava, “avete troppa sete e non sapete approfittare delle libertà che avete; avete ancora la libertà di pensare ma quello non lo fate e in cambio pretendete la libertà di scrivere e di fotografare. Immagini geniali e interessanti di presidenti solidali e di mamme piangenti”. Ebbene, “Slurp” ci racconta nei dettagli quello che Gaber cantava nell’81. Unico rimedio e, dunque, unica vera rivoluzione è recuperare il senso della dignità. “Scudi umani a mezzo stampa: il loro segreto è non avere una reputazione”, incalza infatti Travaglio, anticipando la chiave di lettura che poi svela nell’esortazione finale della sua meritevole opera di denuncia sociale, di rilievo ancora maggiore vista la fama del giornalista: “se dall’alto non cambia nulla, impegnatevi anche voi, dal basso, a migliorare la qualità dell’informazione, sostenendo quella buona e criticando quella cattiva”. Del resto, scriveva lo scorso anno Gianluca Ferrara sul “Fatto Quotidiano”, in riferimento al lavoro teatrale del collega, i potenti ed i loro servi hanno, in un modo o nell’altro, bisogno del consenso per conservare il proprio posto; e gli strumenti di ricatto per ottenerlo si basano essenzialmente su due sentimenti: la paura e i favori. Per ritrovare la verità, per una stampa all’altezza della sua stessa etica, per essere semplicemente liberi, occorre “soltanto” più coraggio. Basta ricordarselo, ogni giorno e, quanto meno, al momento del voto.
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