Belgio, sharia e autobus separati: “Bruxelles sarà musulmana”. Il partito islamico fa discutere

Bruxelles, la capitale d’Europa, sarà musulmana in poco più di dieci anni. Più che una promessa (minacciosa a seconda dei punti di vista), un dato di fatto in una città in cui, già oggi, un terzo della popolazione è musulmana e dove, dal 2001, il nome più diffuso tra i nuovi nati è quello del profeta dell’Islam, Mohammed. Pesano come macigni, dunque, le parole di Abdelhay Bakkali Tahiri, presidente del relativamente nuovo partito belga chiamato, appunto, “Islam“. Continua a leggere

“I terroristi? Sono giovani musulmani discriminati”: ecco la voce dell’islam moderato

“Laddove l’Isis offre loro qualcosa per cui morire, noi dobbiamo offrire loro qualcosa per cui vivere”.

La condanna degli attentati è netta, la presa di distanza dall’ideologia dell’Isis altrettanto, ma la retorica è quella banale, spicciola e progressista per cui, dopo tutto, le deviazioni terroriste dei giovani musulmani potremmo sicuramente evitarle, se solo noi cattivi europei ci comportassimo un po’ meglio con loro.
Ad affermarlo, in un articolo sulle colonne del quotidiano inglese “The Independent“, è l’imam Qari Muhammad Asim, oltre 10mila like sulla sua pagina fb, membro esecutivo del “Consiglio Nazionale delle Mosche e degli Imam” (che si occupa della formazione per tutto il nord dell’Inghilterra), di professione avvocato nell’ambito del mercato immobiliare per una delle più grosse aziende del mondo nella sua sede di Leeds, città nella quale è anche senior imam nella moschea di Makkah.
Insomma, quello che si dice un musulmano moderato, integrato e assolutamente ben inserito, che gode appunto di ampia visibilità e credito. Continua a leggere

Oltre 400 jihadisti stanno rientrando nel Regno Unito. Intanto 3000 sospettati sono già nel paese

Più di quattrocento ex combattenti jihadisti stanno tornando nel Regno Unito“. A dare l’allarme, in un articolo pubblicato ieri su Sky News, è Mark White, che cita fonti della sicurezza, le quali riterrebbero appunto che almeno quattrocento combattenti, di ritorno dagli scenari di guerra in Siria ed Iraq, stiano per rientrare nel paese.
“Le autorità”, aggiunge White, “ritengono ci sia un rischio crescente che il Regno Unito subisca lo stesso tipo di attacchi con armi da fuoco ed esplosivi visti in Francia e Belgio recentemente“. Secondo Sky News, soltanto una piccola parte degli jihadisti tornati dal medioriente, sarebbero stati perseguiti ad oggi. Tra loro Imran Khawaja, condannato a 12 anni di prigione una volta rientrato nel paese: partito per la Siria nel 2015, tratto in arresto già nel 2015, Imran Khawaja, nonostante il nome poco inglese, viene dai quartieri ovest di Londra ed era stato fermato insieme al cugino Tahir Bhatti, condannato per favoreggiamento avendolo aiutato a rientrare nel paese andando a prenderlo fino in Serbia, ed al suo amico Asim Ali, condannato per averlo aiutato economicamente nell’impresa.

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Brigitte Bardot: “Non mi sono battuta contro l’Algeria francese per accettare una Francia algerina”

La leggendaria attrice Brigitte Bardot torna a provocare scalpore con le sue dichiarazioni poco inclini ad assecondare la favola della società multietnica felice. E lo fa in occasione di una intervista per l’uscita, a febbraio, del suo libro “Répliques et Piques”, una raccolta di oltre mille frasi ed aforismi della star del cinema venute fuori da interviste, documentari, libri e film, divise per tema.

Non li posso più di vedere, gli islamisti. Praticamente ovunque in Francia vedo burqa, è inammissibile. Che vivano come vogliano nei loro paesi d’origine ma qui non pretendano di imporre i loro costumi, le loro usanze e discriminazioni d’altre epoche: la Francia non è questo“, afferma senza mezzi termini l’ex modella e cantante. Che poco dopo aggiunge: “Non mi sono battuta contro l’Algeria francese per poi accettare una Francia algerina. Io non metto bocca sulla cultura, l’identità ed i costumi degli altri. Che allo stesso modo non si tocchino i miei”.

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Estremisti islamici negli atenei inglesi, allarme in un report

maxresdefaultEstremisti islamici nelle università inglesi, lo “Student Rights” lancia l’allarme e segnala ben trenta eventi a rischio in pochi mesi. “Troppe sono le istituzioni che ancora permettono eventi a cui partecipano oratori estremisti o intolleranti senza alcun contraddittorio”, spiegano infatti nel presentare il report sulle attività ritenute ‘critiche’ svolte nelle università britanniche dal settembre 2015 al gennaio del 2016. Certo, la fonte non è delle più “affidabili” da un punto di vista ideologico ma i dati oggettivi ricavabili sono interessanti. Per cui facciamo ordine, prima di approfondire il rapporto. Innanzitutto, lo Student Rights è un progetto interno alla Henry Jackson Society, think thank conservatore britannico ispirato alla figura del senatore democratico fortemente anticomunista e che porta avanti l’idea di esportare la democrazia in tutto il mondo. In un articolo pubblicato di recente addirittura accusano Saddam Hussein, notoriamente capo di un Iraq laico come la Siria di Assad, di aver in qualche modo contribuito alla creazione dell’Isis. “Le moderne democrazie liberali”, spiegano, “rappresentano un esempio a cui il resto del mondo dovrebbe aspirare”. In altri passaggi propagandano il supporto ad ogni attività che favorisca la caduta di regimi non ancora liberal-democratici. Gente, insomma, che volentieri  ti organizzerebbe una “primavera araba”, per poi lasciarti col cerino in mano di un territorio che esplode nei conflitti. Forte sostegno alle spese militari, securitari, filo-statunitensi, progettano non a caso una modernizzazione ed integrazione della macchina militare europea, sotto il controllo inglese e nel quadro della Nato. Spiegano che “solo gli stati democratici liberali sono veramente legittimati”, ma anche che “l’alleanza con regimi repressivi, temporaneamente, è ammissibile”. In pratica, i falchi dell’occidentalismo, travestiti da agnellini dei diritti umani, la legge sacra con il quale il sistema difende il suo diritto di esistere.

Quanto al report che hanno redatto, invece, si tratta di una raccolta di informazioni in merito ai contenuti ed alla storia ‘politica’ degli oratori di alcuni incontri promossi all’interno degli atenei del Regno Unito, che spaziano dai fervori antigay agli slogan anti-bianchi come “Uccidi il boero!”,  fino a chi parla di “agenda razzista e suprematista bianca”, passando ovviamente per la causa islamica. L’allarme lanciato dal report, del resto, si riscontra facilmente nelle cronache inglesi. Oltre ai numerosissimi arresti legati al terrorismo e all’estremismo islamico, i foreign fighters partiti dal suolo britannico, si potrà anche ricordare l’evento da noi già segnalato all’interno del King’s College svoltosi con la separazione di uomini e donne. Oppure l’arresto di un ex presidente della Islamic Society (stessa organizzatrice dell’evento peraltro) in seguito ad alcune indagini che avevano evidenziato la preparazione di alcuni attacchi. Ecco, quindi, alcuni degli eventi in questione. Il 16 ottobre dello scorso anno, presso la Queen Mary University, si tiene un convegno dal titolo “L’Islam è la causa o la soluzione all’estremismo?”, organizzato dalla Islamic Education and Research Academy, organizzazione già interdetta dallo University College of London nel 2013 dopo aver ospitato un evento su Islam e ateismo in cui la platea era suddivisa per genere sessuale, costringendo dunque le donne a sedere separatamente rispetto agli uomini e viceversa. Hamza Tzortzis, uno dei relatori, aveva in passato affermato che gli apostati dovrebbero essere uccisi, oltre a dichiararsi contro “l’idea di libertà”.

Il 29 settembre, invece, presso l’Institute of Education a parlare è Moazzan Begg, già detenuto a Guantanamo per tre anni, il quale ricopre ruoli di responsabilità all’interno del gruppo Cage, che si oppone alla “guerra al terrore”, spesso a difesa di molti sospetti terroristi. Begg, a Guantanamo, avrebbe ammesso di aver visitato campi di addestramento al confine tra Afghanistan e Pakistan, noti per aver ospitato militanti di Al Qaeda. Da avvocato ha difeso la causa di molti sospettati. Durante l’incontro, a cui partecipava un’associazione che riunisce gli studenti di colore, alcuni hanno accusato il programma inglese per la lotta al terrorismo di esser parte di una strategia razzista per la supremazia bianca. Il 2 novembre, presso la Scuola di Studi Orientali e Africani, ancora Begg è protagonista di un incontro sul tema “Fratelli dietro le sbarre”, accanto a Harris Farooqi, il cui padre era stato condannato nel 2011 per aver preparato atti di terrorismo ed aver incitato a fare altrettanto in alcune pubblicazioni. All’incontro avrebbe partecipato attivamente anche Nicki Jameson, del “Fight Racism Fight Imperialism”, pubblicazione del Gruppo Comunista Rivoluzionario (RCG). Durante l’incontro sarebbe stato distribuito materiale in sostegno di Adel Abdel Bary, condannato nel 2014 per il coinvolgimento nell’attentato ad un’ambasciata statunitense in Africa nel 1998. All’interno dello stesso istituto, tre giorni dopo, un seminario sull’islamofobia, ha visto uno degli oratori, Sufyan Ismail, lamentarsi della criminalizzazione dei cosiddetti foreign fighters che vanno a combattere in Siria.

Presso la London South Bank University, invece, il 13 novembre, Abu Bakr Islam ha partecipato ad un incontro in compagnia dell’ex rapper Muslim Belal, noto attore e sceneggiatore inglese convertitosi all’Islam nel 2002. Nel 2011, Islam sul suo sito aveva incitato a giustiziare i non-musulmani che non pregano e vogliono sposare una donna musulmana. Il 23 novembre, presso la University of East London, l’onnipresente Begg partecipava insieme a Weyman Bennett di “Stand up to racism” ad un incontro che incitava: “Non permettiamo ai razzisti di dividerci. No all’islamofobia”. Il 28 novembre, ancora presso la Scuola di Studi Orientali ed Africani, all’interno di una iniziativa dei “Black Students” della National Union of Students, era presente Julius Malema, figura politica di rilievo del Sud Africa, fondatore del partito Economic Freedom Fighter dopo l’espulsione dall’African National Congress, il partito di Mandela e dell’attuale presidente Zuma, ininterrottamente al potere dal ’94. Malema è considerato un populista che spinge per il conflitto razziale. In occasione delle accuse di stupro rivolte da una donna al presidente Zuma, Malema aveva ironizzato dicendo che la donna doveva aver trascorso bei momenti. Nel 2011 è stato condannato per aver cantato la canzone simbolo della rivolta anti-bianca nel paese: “Spara al boero”. Sogna un Sud Africa senza più bianchi, slogan lanciato in una manifestazione dell’agosto 2011 che ha portato insieme ad altri episodi alla sua espulsione dal partito.

Economic Freedom Fighters (EFF) leader Julius Malema is seen at the protest movement's launch on Thursday, 11 July 2013. The EFF was different to other African National Congress breakaway parties, the expelled ANC Youth League president said at Constitution Hill, Johannesburg."We are not like Agang [SA] and all of them... We have a completely different plan." This plan included the non-negotiable principles of land expropriation and nationalisation of mines, both without compensation. The EFF sought to move away from a discourse of reconciliation to one of justice, Malema said. The EFF would hold a conference in Soweto on July 26 and 27 to work out its policies and manifesto. Picture: Werner Beukes/SAPA

Dunque, al netto dei discorsi ritenuti sospetti dalla Henry Jackson Society per l’anti-femminismo, l’anti-democraticismo, l’anti-liberalismo, la giustificazione degli atti di terrorismo contro le truppe statunitensi ed inglesi, l’antisemitismo, tematiche spesso al centro della propaganda occidentalista, rimane comunque tanta roba. E, soprattutto, alcune conclusioni: ciò che ancora in Italia non avviene con troppa frequenza a causa della minor presenza islamica, sta rivelando nel Regno Unito le modalità di uno sviluppo futuro che da noi si presenta ancora agli esordi, con gli immigrati utilizzati come scudo alle manifestazioni della sinistra. Uno dei dati politicamente rilevanti, infatti, è proprio la vicinanza degli ambienti dell’estremismo islamico con quelli della sinistra. Ciò che avevamo messo in evidenza anche in occasione della manifestazione “Refugee Welcome Here” svoltasi a Londra poche settimane fa. E, non ultimo, il carattere razziale anti-bianco di questo movimentismo che simpatizza con l’estremismo islamico, con tutto il contorno delle associazioni di studenti neri, le stesse che poi fanno campagna per la rimozione dei simboli del colonialismo dai luoghi pubblici, dalla Gran Bretagna al Sud Africa, il cui leader estremista, non a caso, appare tra gli oratori di uno di questi eventi. Insomma, con il massimo garantismo possibile quanto agli arresti e pur al di là dei collegamenti col terrorismo, ciò che troviamo è tutto un mondo variamente ostile all’Europa ed ai suoi popoli che si riunisce per distruggerne i simboli, mentre i benpensanti di casa nostra suggeriscono ciecamente l’integrazione. Non ci illudiamo che, rispetto a tutto questo, l’Italia sarà immune ancora per molto tempo. Il tempo di agire è adesso.

Emmanuel Raffaele, 7 apr 2016

L’integrazione c’è già e non è la soluzione (al terrorismo). Ditelo a Saviano

Molenbeek, Belgio
Molenbeek, Belgio

Cui prodest? Forse non sarà la risposta alla domanda sui mandanti (se ci sono) della strage di Bruxelles e del terrorismo islamico. Ma vale la pena notare come il terrorismo produca, come sempre, l’estremizzazione delle posizioni e, dunque, la manifestazione di posizioni del tutto assurde, da una parte e dall’altra. Difficile sapere il perché di quell’indirizzo dimenticato e non trasmesso dalla polizia all’antiterrorismo, difficile sapere se dietro gli attentati terroristici degli ultimi anni e dietro tutte le stranezze ci sia la mano di qualcuno che, come già avvenne in Italia, intende portare avanti una strategia della tensione su scala internazionale per tenere ancorato il fronte occidentale su posizioni filo-israeliane. Gli indizi ci sono tutti, a cominciare dalla questione siriana, dalla complicità della Turchia nei traffici dell’Isis. Dopo tutto qualcuno deve pur rifornire di soldi e armi personaggi di origine allogena che, però, generalmente, nascono e si trovano già in Europa. Ma la realtà è più complessa persino di quel che pensano i complottisti, è multipolare, per cui meglio valutare i fatti in base a ciò che è appurato. Pur sovvenzionato e/o favorito dall’esterno, il terrorismo islamico è una realtà, un pericolo concreto ed in quanto tale non si può ignorarne la vicinanza agli ambienti del fondamentalismo islamico.

Altra certezza è, come dicevamo, che il terrorismo ha centrato il bersaglio. Da una parte i gessetti colorati, i vari Saviano, Mannoia, Boldrini e simili con le loro dichiarazioni fotocopia sull’accoglienza e l’integrazione come panacea a tutti i mali; dall’altra, i vari Belpietro, Ferrara, Magdi ‘Cristiano’ Allam, Salvini a dire che l’Islam in sé è il male, contro la libertà e contro l’Occidente che si deve schierare unito contro di loro (come volevasi dimostrare). Sulle alleanze ‘sciolte’ con l’Arabia Saudita, in genere, sorvolano. Così come la prima categoria, in genere, sorvola su un fatto: in tutta Europa l’integrazione è già un fatto, l’accoglienza di centinaia di migliaia di immigrati anche, eppure il clima sembra soltanto peggiorato.

Come sempre, quindi, realismo, concretezza e principi saldi, servono molto più di ideologie e schieramenti aprioristici.

Il nome del profeta dell’Islam è tra i nomi più diffusi tra i nuovi nati in Gran Bretagna, tra i più diffusi in Belgio, Al Jazeera, rete televisiva che ha come telespettatori una percentuale di mussulmani pari a circa il 98% ha le sue sedi a Washington e Londra, in Spagna e altre città europee e tantissime altre ancora negli Stati Uniti. L’Islam è già parte dell’Occidente. Donald Trump dice di voler espellere i mussulmani dal paese ma sa benissimo che è una sciocchezza propagandistica. E ‘confidiamo nella cattiva fede’ dei giornalisti e dei politici nostrani quando affermano che il nemico è l’Islam, salvo poi inchinarsi al politicamente corretto in maniera bipartisan quando c’è da puntare il dito sul ‘razzismo dell’estrema destra’, solitamente accusata per il suo antisemitismo. Il presunto antisemitismo non va bene ma, a quanto pare, discriminare milioni di persone per la propria fede (e limitatamente anche per la razza, dal momento che, però, mussulmani si può anche diventarlo da italiani, ad esempio), invece, si.

Il loro liberalismo si ferma lì. Il loro antirazzismo è solo servilismo ad Israele. Non a caso lo scrittore Roberto Saviano, divenuto noto al grande pubblico con la pubblicazione del libro “Gomorra” sulla malavita campana, oggi ‘twitta’: “Il terrorismo si combatte solo con l’integrazione”. Evidentemente, vivendo sotto scorta dal 2006, Saviano è un po’ fuori dal mondo. E peraltro un po’ confuso, dal momento che nel 2010 (e poi anche in altre occasioni) dichiarò il suo sostegno allo stato di Israele, di certo non un campione d’accoglienza e integrazione, con l’occupazione dei territori palestinesi, i muri e pochi giorni fa l’ultima dimostrazione della sua democraticità: un soldato israeliano che spara a freddo e uccide un palestinese disteso per terra, già immobilizzato e tratto in arresto dopo un accoltellamento. Con lui, considerato eroe nazionale, è accorso subito a complimentarsi un esponente dell’estrema destra anti-araba israeliana. In quella occasione lo scrittore icona del politicamente corretto definì Israele “una democrazia sotto assedio”. In quell’occasione, evidentemente, si dimenticò di suggerire l’integrazione come soluzione. L’isolamento di Gaza, senza accesso ad acqua ed elettricità, prigione a cielo aperto, deve essergli sembrata un’ottima idea.

Due giorni fa, a Londra, sono stati fermati due giovani mussulmani di 21 e 22 anni, che avevano già effettuato ricognizioni presso alcune stazioni di polizia per effettuare attentati. Entrambi con cittadinanza inglese, sono cresciuti nello stesso quartiere del tristemente famoso ‘Jihadi John’, l’altro inglese appartenente all’Isis ucciso in un raid.

Uno di loro era stato presidente della “Islamic Society”, club interno al prestigioso King’s College di Londra, che ha la sua sede principale sullo Strand, in centro. Lo stesso ateneo in cui, qualche settimana fa, la Boldrini teneva il discorso annuale del Jean Monnet Centre of Excellence e straparlava di europeismo, antifascismo e accoglienza. Lo stesso club finito sui giornali nei giorni scorsi per avere organizzato un banchetto in cui donne e uomini erano separati nel corso della serata da un paravento posto in mezzo alla sala. Un evento a pagamento ‘privato’ per cui l’ateneo ha declinato ogni responsabilità ed il cui acquisto ticket prevedeva due differenti contatti per uomini e donne.

Non più di una settimana fa, sui quotidiani inglesi era possibile leggere di una prestigiosa boutique in Oxford Circus (siamo sempre a Londra, città in cui i bianchi sono ufficialmente una minoranza) che esporrà i cosiddetti ‘burkini’ (costume da bagno completamente coprente utilizzato dalle donne mussulmane) nel proprio store. Alla London Fashion Week, il mese scorso, hanno sfilato modelle col velo. In giro per la città, in strada e sul posto di lavoro, non si contano i centri islamici, le donne col velo o con il burqa.

A Parigi, nel quartiere di Saint Denis, e soprattutto nella ‘belga’ Molenbeek, dove i terroristi delle stragi sono stati protetti dalla comunità che ci viveva, abbiamo visto che l’integrazione non solo c’è, ma appartiene ormai al passato: in futuro ad integrarci dovremo essere noi. Ed effettivamente, con la politica delle frontiere aperte e la bassissima natalità europea, presto neanche questo sarà più un problema. L’Europa com’era, semplicemente, non esisterà più. L’Europa di etnia caucasica, di religione cristiana, di origini greco-romane, sarà soltanto storia, con la benedizione di Boldrini & Co.

Ne saranno contenti anche gli antifascisti di tutta Europa, che lanciano agli immigrati il rassicurante slogan “Refugee Welcome” e si sono detti disposti ad accettare gli stupri in cambio delle frontiere aperte. Gli stupri si possono accettare, il ‘razzismo’ no.

Papa Francesco, in occasione del rito della lavanda dei piedi che precede la Pasqua, si è inchinato e ha baciato simbolicamente i piedi a dodici immigrati di fede islamica. Alcuni sacerdoti hanno messo le loro chiese a disposizione degli islamici per la loro preghiera.

La cantante Fiorella Mannoia ha dichiarato: “i nostri morti per i loro”, avallando così il terrorismo, il ‘nostro’ ed il loro.

“In Siria”, ha dichiarato, “ci sono migliaia di cittadini morti uccisi da bombardamenti, perché loro non sono essere umani innocenti come noi? Bisogna avere la stessa pietà per i nostri morti come per i loro. La comunicazione non li mette sullo stesso piano: quando accadono cose in occidente ci spaventiamo, ma anche quelle sono famiglie”. Giusto, per carità: peccato che non abbia detto una parola sulla destituzione del presidente Assad, unico a combattere sul campo l’Isis insieme alla Russia di Putin. Peccato abbia condannato il terrorismo occidentale, ma non quello islamico, che non è esattamente un modo leale di “fare la guerra”.

D’altronde, non è stata l’unica a dire: perché gli attentati ad Ankara, in Africa e nel resto del mondo non ci colpiscono come quelli di Parigi o di Bruxelles?

Un po’ come dire ad una madre a cui è morto il figlio o ad un ragazzo a cui è morto il fratello: perché soffri così tanto quando ogni giorno, nel mondo, muoiono tantissime persone e tu non sei altrettanto dispiaciuto?

Sfugge completamente il concetto di comunità, che precede e dà le basi ideali al concetto di identità, di fratellanza, di vicinanza umana rispetto a chi condivide con te qualcosa, rispetto a chi conosci più da vicino, con il quale sei unito concretamente e non astrattamente.

Annalisa Gadaleta, assessore proprio a Molenbeek, ha dichiarato all’Ansa: “Ma gli italiani a chi vogliono fare la lezione? I primi a essere venuti qui a migliaia siamo stati noi perché avevamo fame e volevamo una vita migliore”. E poi ancora: “Oggi arrivano persone che fuggono dalla guerra e non puoi dire loro rimanete a farvi ammazzare nei vostri Paesi”. “L’errore”, ha aggiunto, “è pensare che chi viene da Paesi connotati da dittature o comunque regimi non democratici, possano venire e adeguarsi automaticamente alla democrazia”.

L’essere europei, avere una cultura comune, una fratellanza spirituale, le medesime origini etniche non sembrano avere alcuna importanza per l’assessore in questione come per tanti altri. L’italiano che va in Belgio è la stessa cosa dell’africano che arriva in Europa. Peraltro, non che l’emigrazione in sé sia un fenomeno positivo, ma c’è differenza sostanziale anche tra le migrazioni di massa, gli arrivi sui barconi, le invasioni alle frontiere e gli spostamenti, molto più contenuti e sostanzialmente diversi nel metodo, degli italiani nel tempo. Non che l’emigrazione, con lo sradicamento che porta con sé, possa essere considerato di suo un fenomeno positivo. Ma non si possono neanche ignorare le differenze. In un ritratto in bianco e nero, le sfumature sono tutto nella buona riuscita del disegno, non puoi ridurre il tutto al si o no alle sfumature.

E non sono semplicemente accettabili parole tese a giustificare i comportamenti anti-sociali dei migranti, né politicamente sensate le conclusioni: “i fenomeno migratori non si possono fermare”.

Non solo si possono fermare, ma se così fosse, faremmo prima a dichiarare il fallimento degli Stati, con l’unico risultato positivo che, almeno, personaggi come la Gadaleta non avrebbero più un posto sicuro su cui poggiare il culo.

Certo, forse dall’Italia è ancora possibile pensare che la situazione sia connessa all’integrazione. Ma neanche più di tanto. In una prospettiva europea, però, con l’integrazione ed in alcuni casi la predominanza islamica, invocare l’integrazione è semplicemente fuori luogo e fuori tempo. L’integrazione c’è già. E non è evidentemente la soluzione.

Ma, tra parentesi, cosa si intende per integrazione? Cosa vuol dire concretamente questo concetto un po’ astratto che può rappresentare tutto e niente? Vuol dire tolleranza? Libertà religiosa? Vuol dire che gli islamici devono diventare come noi? Vuol dire che noi dobbiamo diventare come loro? A meno con il termine non si intenda, quindi, l’ipotesi di annullare la nostra o la loro identità, integrazione non può voler dire altro che coesistenza pacifica e rispetto.

E tutto ciò che abbiamo detto, il comportamento delle istituzioni, della società, non dimostra minimamente il contrario. O si vuole contestare l’opinione dei singoli e imporre il pensiero unico filo-islamico? Neanche questa, peraltro, sarebbe integrazione. Sarebbe censura. La legge già prevede reati di pensiero fin troppo restrittivi, dubitiamo ci sia bisogno di introdurne altri. O forse impedire le minigonne, chiudere in casa le donne europee è integrazione?

Quanto alle soluzioni, c’è chi dice che siamo in guerra e bisogna bombardare. Ma finora, chissà perché, gli unici a respingere sul campo i jihadisti sono stati il presidente siriano e quello russo, mentre gli americani hanno storto il naso quando Putin ha colpito i cosiddetti “ribelli moderati”. La loro soluzione, come sempre, è quella di violare la sovranità di altri stati sovrani, in genere stati laici, come la Siria appunto ed in passato la Libia, l’Iraq, per poi lamentarsi della destabilizzazione e dell’avanzare di milizia fondamentaliste, in genere finanziate dagli alleati arabi o turchi ed armati e a volte addestrati dagli stessi Stati Uniti per abbattere i regimi in questione. Chiaramente prima di “scoprire” che si tratta di terroristi.

Bombardare la Siria, però, è una chiara violazione di sovranità. Quanto alla Libia, è chiaro, invece, che l’intervento diventa inevitabile per il nostro paese nel momento in cui diventa un pericolo diretto e, tranne quello fantoccio portato su un barcone dall’Occidente, non esiste praticamente un governo.

Infine, c’è la questione immigrazione. È chiaro a tutti, tranne che a chi “amministra” il nostro paese, che – questioni sociali e politiche di fondo a parte – è impensabile conciliare la lotta al terrorismo con l’arrivo di masse di immigrati difficilmente identificabili. Ed è impensabile parlare di integrazione laddove i fenomeni diventano di massa: è come ingoiare un’intera scatola di medicine in una volta sola e pensare di averne benefici o rimanere sott’acqua a bocca aperta con l’intento di reidratarsi. Il popolo ebraico si è insediato in massa in Palestina ed ha dato vita allo stato di Israele: l’esperimento integrazione non sembra sia andato a buon fine. Persino la coesistenza è divenuta impossibile. Naturalmente. Tanto per ricordare a Saviano il concetto di integrazione dei suoi beniamini.

Lo stop all’invasione delle frontiere europee, dunque, è una misura necessaria, seppur non completamente risolutiva. I terroristi, lo sappiamo, sono già nel nostro continente, molto spesso ci sono nati, sono cittadini europei, super integrati appunto. E’ chiaro che non ci si può limitare ad attendere gli attentati e ricercare poi i responsabili. Un lavoro di intelligence che finora ha rivelato molte falle. A volte anche troppe per non essere sospette.

Ma il problema che sta alla radice del fenomeno dei foreign fighters e dei terroristi cresciuti nelle nostre città e nelle nostre scuole non può che suggerire soluzioni del tutto opposte a quelle suggerite dai maestri del politicamente corretto. È chiaro che nel quartiere arabo di Bruxelles o in quello di Parigi, l’Europa è soltanto un nome su una mappa. L’Europa è un’identità che in quei posti smette di esistere, rappresenta lo straniero (nemico o meno) e non la propria comunità di appartenenza. La possibilità di coesistere pacificamente l’Europa ha imparato a concederla finalmente. Ma l’interrogativo è: la coesistenza pacifica a cui ci siamo resi disponibili ha prodotto ‘integrazione’ ? Ha permesso, insomma, la nascita di un sentimento comunitario comune? Non lo ha fatto. Fondamentalismo a parte, il punto è proprio quello: il sentimento comunitario fondato sulla condivisione linguistica, culturale, religiosa, etnica resiste, da sempre peraltro, alla coesistenza.

Dunque? Tornare indietro a qualche, a volte troppi decenni fa o anche più non è possibile. Ma fermare l’avanzata di un esperimento che si è rivelato fallimentare, invece, lo è. Affermare l’identità europea, invertire la rotta, ridare vitalità ad un corpo morente, rimettere al centro la natalità, pretendere che si possa tornare a parlare e considerare le minoranze come tali nella vita pubblica, senza tabù. E, quanto alle azioni specifiche, non si può pretendere di affrontare il terrorismo come il crimine comune e non per quello che è socialmente. Dunque, espulsioni vere e, per chi l’ha acquisita, revoca della cittadinanza se chi viene condannato in via definitiva per fatti legati al terrorismo islamico ad esempio. Intervenire sulle connivenze, i legami comunitari dei terroristi, utilizzando le stesse misure nei confronti della rete di protezione che li circonda. Familiari, conoscenti. Destrutturare le loro ‘posizioni’ e, nel frattempo, ristrutturare le nostre.

Tutte cose che, se venissero fatte, si griderebbe subito al nazismo. Ecco perché non si farà nulla. Ed ecco perché l’Europa morirà senza combattere. Mentre pochi tenteranno di resistere, abbandonati a se stessi e trattati come i veri nemici.

Londra, dal 4 marzo l’attesissima mostra sulla vita di Muhammad Ali

muhammad-ali-draft2-grayscaleDal 4 marzo al 31 agosto gli appassionati della boxe in tutto il mondo avranno un motivo in più per visitare Londra. Infatti, “The O2”, l’enorme tensostruttura a forma di cupola allineata al meridiano di Greenwich, costruita a fine anni Novanta, ospiterà nel corso della primavera e dell’estate, l’attesissima esposizione dedicata alla vita di Muhammad Ali dentro e fuori dal ring.

Già sperimentata con lo scomparso Elvis Presley, che aveva attirato oltre 200mila visitatori, la formula servirà adesso a raccontare la storia di Cassius Marcellus Clay Jr, classe 1942, titolo mondiale dei pesi massimi dal 1964 al 1967, dal 1974 al 1978, divenuto Muhammad Ali in seguito alla conversione all’Islam, campione eccentrico e ribelle, “razzialmente identitario”, si vide ritirare la licenza da parte della commissione pugilistica in seguito al rifiuto di prestare il servizio militare nel corso della guerra degli Usa in Vietnam: «Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro“».

“I am the greatest”, non a caso, è la frase che gli organizzatori hanno scelto per pubblicizzare l’evento: “quando si è grandi come lo sono io, è difficile essere modesti”, dichiarò infatti Ali, provocatore, esuberante, tracotante e, soprattutto, velocissimo ed imbattibile sul ring grazie ad un gioco di gambe che lo rendeva simile ad un ballerino nonostante la potenza dei suoi quasi cento chili distribuiti su 191 cm di altezza.

Un ring interattivo mostrerà, tra le prime cose, le sue tecniche di allenamento ed il suo modo di boxare. E poi ancora video inediti, fotografie e oltre un centinaio di oggetti tra guantoni, medaglie (compresa quella delle vinta da giovanissimo nel 1960 alle Olimpiadi di Roma) ed altre cose appartenute al campione che oggi, a 74 anni e con un morbo di Parkinson che non gli ha impedito di impegnarsi nella solidarietà, è stato calorosamente invitato dagli organizzatori a voler partecipare all’evento.

Uno degli spazi espositivi, ha spiegato David Miller, uno dei curatori della mostra, sarà dedicato proprio al suo scontro con le autorità nel 1967, quando si rifiutò di combattere contro i Vietcong. Autore di ben quattro libri sul personaggio, Miller confida: “Non sarà un’esperienza museale, vogliamo una mostra dallo sguardo torvo  e che abbai contro le persone allo stesso modo in cui farebbe Ali. Vogliamo, al tempo stesso, far ridere e piangere i visitatori”.

Campione irriverente e fuori dagli schemi, non reagiva al razzismo con vittimismo ma ostentando l’orgoglio delle sue radici, tanto che in un’intervista televisiva [1], al giornalista politicamente corretto che lo incalzava: “non mi dispiacerebbe se mia figlia sposasse un nero: è la società che ci vuole diversi”; lui rispondeva candidamente: Dio ci ha fatto diversi. Ed alle obiezioni dell’intervistatore, replicava con queste parole: “Triste? Non è triste se voglio che mio figlio somigli a me. Sarei triste se perdessi la mia meravigliosa identità. Chi vorrebbe uccidere la propria razza?”

[1] https://www.youtube.com/watch?v=RKV4xxmV-Sc

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Su Islam e Occidente, destra contro “destra”

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“Non sono adatto al mercato elettorale dove la pur formidabile Meloni è poi costretta ad argomentare da pezzente per salvaguardare il proprio orticello”. Così Pietrangelo Buttafuoco sulla proposta salviniana di candidarlo a governatore della Sicilia e la reazione del leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, contraria per il suo essere “islamico”.

La questione, in effetti, ha evidenziato una frattura da sempre presente all’interno dello scenario della cosiddetta destra, distinguendo una destra che si vuole conservatrice, occidentalista, con il pallino dell’ordine apparente di tipo borghese, ed una destra che non vorrebbe neanche poi tanto essere destra, ma si vuole avanguardia, rivoluzionaria, anti-borghese e più propriamente nazionalista, rifiutando sottomissioni culturali all’ideologia occidentalista di derivazione americana.

Una frattura – meta-politica, dal momento che poi le sfumature sono purtroppo le più varie – che intorno al tema dell’Islam si mostra con forza ed attualità.

Da una parte c’è la xenofobia di chi dal timore fa scaturire la propria identità soltanto per antitesi e si barrica così dietro la rigidità ideologica di chi è altrimenti privo di contenuti (si pensi alla destra in stile Oriana Fallaci o Giuliano Ferrara, atei a difesa di una presunta civiltà ebreo-cristiana). È la destra che ama il tintinnio delle manette, sta dalla parte della divisa e del più forte a prescindere, ha paura delle sirene di notte e brandisce croci aizzandole contro l’apertura di nuove moschee.

Dall’altra, c’è chi non teme le moschee o la diversità, non fa dell’immigrato il nemico ma, considerandolo una pedina (buono o cattivo ciò attiene alla sfera personale), si oppone piuttosto al fenomeno migratorio per motivi sociali e realmente identitari: è, innanzitutto, l’idea di Stato da difendere; poi lo Stato sociale messo a dura prova dall’immigrazione di massa, sia nella sua equità che nella sua tenuta; e, ancora, il concetto di cittadinanza, di popolo come “comunità” e non “società”; infine, l’idea stessa di diversità, che non è tale quando l’integrazione diviene omologazione della cultura al modello unico che, in nome di una sua presunta superiorità, proprio l’ideologia occidentalista porta avanti.

Inevitabilmente, chi non ama il liberalismo da cui scaturisce l’ideologia occidentalista e vorrebbe un fronte nazionale o europeo fondato su un modello economico-politico alternativo a quello fintamente democratico attuale, non ha certo interesse a paventare uno scontro di civiltà che oppone l’Islam ad uno schieramento per nulla affine, pur senza parteggiare per gli “invasori” o divenendo esterofili come è d’uso a sinistra.

Si sprecano, del resto, le fonti, che svelano la bugia occidentalista. Barbara De Poli, ad esempio, nel suo testo “I mussulmani nel terzo millennio”, ricorda: “Nel 1928, Hassan al-Bannà fondò al Cairo il movimento dei Fratelli Mussulmani, precursore delle diverse correnti radicali contemporanee. Secondo al-Bannà […] era necessario ripristinare la morale islamica e la legge religiosa, istituendo uno Stato islamico. La predicazione faceva leva sul sentimento religioso ma iscriveva l’Islam in una visione politica ideologizzata. Trovò ascolto soprattutto nei contesti sociali di nuova urbanizzazione.

La De Poli segnala due elementi importanti: fino alla prima metà del secolo scorso, i movimenti islamisti erano puntualmente schiacciati da quelli laici. Poi accade qualcosa: “Un fattore di islamizzazione si incardina nel conflitto bipolare: non va sottovalutato che il sostegno attivo ai movimenti islamisti fu una delle strategie promosse dagli Stati Uniti per sottrarre consensi al socialismo e indebolire le sinistre nei paesi arabi. Un contributo significativo a questo disegno venne dall’Arabia Saudita, altrettanto ostile al socialismo. Il controllo di luoghi del pellegrinaggio e, soprattutto, la scoperta del petrolio diedero alla casa saudita gli strumenti per divulgare la dottrina rigorista di Ubn Abd al-Wahhab, affine al salafismo radicale, su scala planetaria”.

Stato-islamico

Tutto ciò che, in breve, è ancora oggi sotto i nostri occhi, con l’appoggio ai ribelli in Siria contro Assad finché la nascita dello Stato islamico non costringe gli Usa a fare marcia indietro (almeno pubblicamente).

“È patente”, segnala infatti il testo, “l’ambiguità delle potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti, che proclamano la guerra contro il terrorismo islamista, ma per strategia politica considerano alleati moderati paesi come l’Arabia Saudita o il Pakistan e annoverano come ostili i regimi più laici del Vicino Oriente, quali l’Iraq di Saddam Hussayn (la cui rimozione ha fatto esplodere e radicalizzare i conflitti religiosi nel paese) o la Siria ba’thista”.

“I nuovi intellettuali dell’Islam”, in effetti, “hanno spesso una formazione di tipo moderno e una debole conoscenza teologica […]. Moderna è la formulazione di una teoria sistematizzata dello Stato islamico; moderni sono anche i modelli organizzativi rigidamente strutturati e gli strumenti della propaganda”.

L’Islam, insomma, si trasforma in ideologia ed in maniera speculare si comporta anche la civiltà cristiana, che nel frattempo perde adepti e la pratica del culto, ma diviene bandiera da sventolare contro la serpe custodita finora in seno da chi ora la dichiara male assoluto.

“Pur avendo dichiarato l’Islam fonte di diritto all’articolo 3 della Costituzione”, osserva la De Poli sulla Siria, “non ne cita mai l’autorità nella sezione dedicata al potere legislativo, attribuito all’Assemblea Popolare, che deve essere costituita almeno per metà da operai e contadini, ma che non pare necessiti della presenza di ulema. All’articolo 134 precisa inoltre che i giudizi in tribunale vanno resi in nome del ‘popolo arabo di Siria’, non in nome di Dio o dell’Islam. Anche per quanto riguarda i principi educativi, la Costituzione afferma che la scuola deve creare ‘una generazione araba socialista’ e non ‘mussulmana’ ”.

La ferma opposizione al fondamentalismo, dunque, non deve condurre ad un rifiuto dell’Islam.

Peraltro, l’Islam conosce una varietà di applicazioni della sharia fino al caso estremo della Tunisia, esempio di laicismo dal punto di vista legislativo. Esistono e sono esistiti più Islam, anche perché non esiste un clero ed una “chiesa” al suo interno. Sotto l’impero ottomano, ad esempio, attraverso le millet, era consentita la libertà religiosa ai cristiani ed alle altre comunità e persino la rappresentanza politica. Libertà religiosa che viene messa in dubbio soltanto dai fondamentalisti.

La percentuale minima di disposizioni giuridiche rintracciabili nel Corano – il 3/7% -, quasi tutte sul diritto di famiglia, consentono alle diverse scuole di pensiero le interpretazioni più varie ed esistono nell’Islam persino istituti “moderni”, come il divorzio. C’è anche – come nell’ebraismo – il ripudio, è vero, ma non è consigliato dal Profeta. Stessa cosa vale per la poligamia, vietata del resto in molti stati, usanza beduina ereditata a malincuore dall’Islam e giustificata da un solo versetto che ne limita l’applicazione ad alcuni casi e corredata da un forte monito sull’impossibile equità con cui trattare le mogli, che per molti è un invito a non praticarla.

Esiste un femminismo islamico, sviluppatosi al suo interno soltanto in modo minoritario nella forma anti-religiosa che ha caratterizzato quello occidentale, ma cresciuto, invece, in un quadro di rispetto e re-interpretazione dell’Islam. La profonda “mutevolezza” dell’Islam fattuale, a fronte di una sua immobilità dal punto di vista formale, è dunque fondamentale per approcciarlo. Lo stesso divieto di prestito ad interesse (ribà), ancora formalmente vietato e rispettatissimo è poi, però, aggirato con diversi mezzi. Quanto alle mutilazioni genitali femminili, sconosciute all’80% della comunità mussulmana, nessuna menzione ne fa il Corano, mentre sono citate senza essere consigliate soltanto in una hadit.

E ancora troviamo spunti di buon senso in quello che è il mahr, il donativo nuziale che, se pur da molti è interpretato come costo della sposa, per secoli ha rappresentato una essenziale tutela della donna, titolare di un suo patrimonio (vige solo la separazione dei beni) e garantita da questa “dote” che veniva data per metà in caso di ripudio, costituendo di fatto una sorta di mantenimento e garanzia contro l’arbitrio dell’uomo. L’Islam ha persino conosciuto i matrimoni a termine o temporanei, utili a permettere rapporti sessuali extraconiugali in una formale liceità.

Anche la zakat, il tributo solidale prescritto da Mohammed, non viene raccolto rigidamente, così come molti non effettuano la preghiera cinque volte al giorno o non effettuano il pellegrinaggio, mentre è molto rispettato il ramadan. Il laicismo, insomma, è prassi quotidiana, seppur senza ostentazioni.

Da un punto di vista politico, inoltre, conviene evidenziare la chiave anti-liberista che in molti intravedono nella zakat e nel divieto di prestito ad interesse il che, associato al forte senso della comunità, ha dato spesso vita al sogno di una terza via alternativa tra i due blocchi ideologici, in maniera non dissimile a certi ambienti nazionalisti europei. Si pensi ai partiti Ba’th.

Non è un caso se la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo voluta dall’ideologia occidentalista, non solo per tutelare diritti e libertà, ma anche per fare della democrazia e dei principi liberali e liberisti i fondamenti di un nuovo ordinamento mondiale di fatto in auge con l’Onu, ha conosciuto forti opposizioni da parte islamica, si pensi alle dichiarazioni parallele del Cairo nel 1990 o a quella del 1981 a Parigi.

Se è vero che l’Islam – come l’antica Roma – non distingue tra autorità spirituale e potere temporale (il Profeta era, d’altronde, capo politico, guerriero e capo spirituale), è anche vero che ciò non porta obbligatoriamente al modello della teocrazia, laddove il modello più vicino è forse proprio di tipo imperiale, senza contare che l’Islam, tenendo separati atti vietati ed atti obbligatori da atti sconsigliati ma comunque legittimi, contiene già al suo interno un potenziale “laico”.

In conclusione, non si può parlare di un solo Islam e non ci si può opporre dunque ad un immaginario Islam compatto e fondamentalista. Si può, invece, laddove possibile e mantenendo la propria identità, tentare un dialogo fruttuoso con chi, almeno potenzialmente, ha una visione economico-politica anti-capitalista e identitaria che ci avvicina molto più all’Islam che a certi elementi della destra occidentalista della porta accanto.

 

Emmanuel Raffaele