Doppia preferenza di genere (anche in Sicilia): qualcosa non torna

crocetta«La sentenza del 14 gennaio 2010 n. 4 della Corte Costituzionale», spiegava il Ministro per le Pari Opportunità Mara Carfagna nell’ottobre 2010, «ha legittimato la legge della Regione Campania che prevede la doppia preferenza di genere». «Questa», assicurava, «è la strada da percorrere per riequilibrare situazioni di partenza gravemente disomogenee».

Effettivamente, dopo l’introduzione della norma, nella Regione Campania le donne elette in Consiglio regionale sono passate da due a quattordici. Ed a sottolinearlo appena qualche mese fa è Sara Valmaggi, vicepresidente del Consiglio regionale lombardo in quota Pd.

Quando nel nostro Paese si tratta di cavalcare i buoni sentimenti e la retorica egualitarista, i maestri dell’ipocrisia dimostrano quanto siano labili le identità politiche proposte.

La legge campana che introduce per la prima volta in Italia la doppia preferenza di genere, nello specifico, prevede la possibilità che l’elettore possa esprimere due preferenze anziché una. Però, nel caso decida di farlo, sarà obbligato a votare due candidati di sesso diverso. Tutto ciò, appunto, per pilotare l’elezione di un numero maggiore di donne all’interno del Consiglio regionale.

La Corte Costituzionale, pronunciatasi nel merito, non vi ha trovato nulla da ridire. Così come sottolinea la Valmaggi, la Consulta ritiene infatti «infondata sia la ‘violazione del diritto dell’elettorato attivo’, sia la ‘violazione del diritto di voto’, prospettata dal Governo in un ricorso nel 2010». Quello stesso governo di cui faceva parte la già citata Carfagna, tanto per chiarire.

Dopo di ché, la legge approvata in Campania è stata presa ad esempio un po’ in tutta Italia, come abbiamo visto nel caso lombardo e come dimostra anche la grande manifestazione organizzata dall’altra parte del Paese, a Catanzaro, il 26 marzo 2012 dal titolo «La democrazia paritaria»; presente all’iniziativa è addirittura il ministro della Giustizia Paola Severino.

Il 23 novembre 2012 la legge n. 215 conferisce legittimità «nazionale» alla proposta, non soltanto introducendo la previsione di precise garanzie di un’adeguata rappresentanza femminile negli enti locali, ma anche regolamentandone il recepimento per quanto riguarda le elezioni nei piccoli comuni.

Approvata appena in aprile, la doppia preferenza di genere, inoltre, ha già debuttato in Sicilia. Effetto del «modello Sicilia», Crocetta-Cinque Stelle, penserete. E invece no. I grillini, dimostrando anticonformismo, si sono opposti duramente alla proposta: «questa legge è una porcata, consentirà il voto di scambio e il capillare controllo del consenso elettorale», ha dichiarato il capogruppo Giancarlo Cancellieri. «Il testo approvato in questa forma è pericolosissimo», gli fa eco la collega Gianina Ciancio. A spiegare i punti deboli della norma approvata è “Il Fatto Quotidiano”: «le due preferenze, infatti, si dovranno esprimere in un’unica scheda. Un vulnus che potrebbe facilmente fare il gioco dei vari ras locali delle preferenze, abilissimi a creare coppie di candidati uomo – donna “blindati” per tracciare la provenienza del voto». Addirittura, «i vari ‘collettori’ di voti potrebbero impartire l’ordine di annullare la seconda preferenza, controllando militarmente i pacchetti di voti dei vari clientes».

A dividere i grillini da Crocetta, che subito ha trovato l’accordo con un’entusiasta Pdl, è stata in questo caso, dunque, una questione formale. Ma non c’è dubbio che le modalità di applicazione della legge, così come la ponderazione dei voti, lasciano spazio a vari dubbi.

Tanto più che, come dicevamo, resta impari il trattamento nei confronti di chi, se non vuole votare una donna (o un uomo), è costretto ad indicare il nome di un soltanto candidato, al contrario di chi, avvalendosi della doppia preferenza, può indicare invece due diversi candidati. Ed è comunque obbligato a scegliere non chi vuole ma un candidato di sesso opposto. Questioni tecnico-giuridiche su cui la Corte, come dicevamo, si è espressa ma sulle quali i dubbi interpretativi permangono.

La questione vera, però, è politica. E parte proprio dalla retorica egualitarista di partenza, senza discostarsi troppo dalla questione sulle «quote rosa», ma conducendo a conseguenze se possibile ancor più assurde.

Che sia garantito alla donna il «diritto alla poltrona» è sacrosanto. Che le sia garantita la poltrona stessa è però tutta un’altra cosa. Se il diritto della donna a partecipare alla vita politica deriva dalla sua uguaglianza davanti alla legge rispetto all’uomo, ciò vuol dire che il suddetto diritto proviene giuridicamente dal suo essere persona con annessi diritti civili, al pari di chiunque altro, uomo o donna che sia. Se invece il diritto lo si fa derivare proprio dall’esser donna è chiaro che tale diritto ha fondamento soltanto in sé stesso, è autoreferenziale, poggia insomma sul nulla e perciò la questione cambia, poiché ciò nega l’uguaglianza di fronte alla legge dalla quale dovrebbe paradossalmente avere origine la proposta.

E con conseguenze ancor più assurde. Stando a questa logica, infatti, un diritto alle pari opportunità così interpretato richiederebbe un’eguale rappresentanza per ogni categoria sotto-rappresentata e riconosciuta come tale. Anzi, a dir la verità, volendo proprio esser coerenti, la norma risulterebbe addirittura discriminatoria nei confronti delle altre «categorie». D’altronde, chi decide quali sono le altre categorie che meritano una poltrona assicurata? Quali i criteri oggettivi? Come la mettiamo per i giovani, anch’essi sotto-rappresentati. O per gli omosessuali, gli immigrati, i cattolici, gli atei, i mussulmani, i protestanti, gli ebrei. E, dopo tutto, perché essere cattivi? Come non garantire una quota di seggi anche a chi ha un pensiero politico sotto-rappresentato?

Il diritto delle minoranze a non esser minoranze. Che è un po’ come il diritto della pioggia ad esser bel tempo. Qualcosa non torna.