Ci sono film che meritano di essere visti, che ti rimangono nella pelle, che non puoi dimenticare. Non è questo il caso. Uscita nelle sale lo scorso 24 ottobre, “My name is Adil” è una pellicola di cui il cinema avrebbe potuto tranquillamente fare a meno. Non aggiunge nulla, non dice nulla di più della sua scarna trama. E probabilmente non avrebbe dovuto andare oltre la sua premessa. “Pensavo che nessuno fosse interessato ad ascoltare la mia storia”, spiega Adil, durante le prime inquadrature, parlando in prima persona. E subito uno pensa: peccato non abbia dato retta a quella prima intuizione. Invece no. Adil Azzab – oggi ventisettenne che lavora come educatore in un centro per minori non accompagnati e che, nel frattempo, ha iniziato a coltivare la sua passione per il cinema – ha deciso di raccontarci la sua storia. E, insieme ad Andrea Pellizzer e Magda Rezene, che hanno contribuito anche alla produzione, prova a dirci della sua terra natale povera di possibilità, della sua nostalgia, dello strano sapore del ritorno a casa dopo tredici anni ma, in fondo, anche della sua intima soddisfazione (e insieme delusione) nel tornarci diverso.
Partito a tredici anni dalla desolata campagna marocchina nei pressi di Beni Mellal (in una regione ormai abbandonata che – è spiegato prima dei titoli di coda – vive praticamente solo delle rimesse dei migranti), stanco di badare alle pecore e deciso a raggiungere suo padre che lavora in Italia, Adil racconta così della sua infanzia segnata da un rapporto difficile con lo zio violento e vagabondo, dalla saggezza del nonno, dall’amore della madre. E così, senza neanche aver mai visto prima di allora la città, arriva a Milano, disorientato e nostalgico, fin quando, finalmente, inizia a sentirsi integrato. Forse. In una intervista su Vice, infatti, spiega quello che già è accennato nel film: “non capivo se ero italiano o marocchino, mi sentivo sospeso, sentivo di non appartenere a niente“. Una identità conflittuale e comunque doppia con la quale dice di aver fatto pace, nella consapevolezza che una delle due rappresenta, però, ormai soltanto il suo passato (tanto più che, dal 2006 anche la madre e i fratelli, col ricongiungimento familiare, sono ora in Italia). Del resto, quando è tornato in Marocco, ha raccontato la sua storia e mostrato il suo lavoro, ha ammesso: “Mi sono sentito ancora una volta straniero. Ero cambiato io ed erano cambiate anche le persone intorno a me, ma soprattutto queste hanno percepito il fatto che io ero cambiato. È stato tosto: da tanto tempo che cerchi casa tua e quando torni a casa non la senti più tale”. Anche in Italia, d’altronde, la situazione è cambiata e l’integrazione all’epoca più semplice oggi forse non è così scontata: “all’epoca – afferma – ero uno dei pochissimi ragazzi stranieri in tutta la scuola. Ora le cose sono cambiate, e in Italia c’è la sensazione di una vera e propria invasione“.
Girato in lingua originale (una delle poche scelte che salvano l’opera) tra il Marocco e Milano, presentato al Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, vincitore della sezione “Open frontiers” al Ventotene Film Festival, della sezione “Migrations and coexistence” al Religion Today Film Festival e recitato da attori non professionisti (il protagonista della storia recita se stesso e suo fratello Hadid Azzab lo impersona all’età di 13 anni), “My name is Adil” ha però diversi limiti concreti (come la sceneggiatura e la trama) oltre ad alcuni limiti concettuali. Innanzitutto, l’idea che qualsiasi storia sia adatta al cinema è di per sé sbagliata ma è proprio da questa idea che nasce, già nel 2011, l’idea di girare questa pellicola, che poi mostra negli aspetti pratici i limiti di questa scelta. La funzione della voce narrante è amplificata all’estremo fino a prendere il sopravvento completo sulle inquadrature, che sembrano fare soltanto da sfondo al parlato. A parte il racconto per immagini, come anticipavamo, la sceneggiatura lascia a desiderare: ci sono storie, evidentemente, che dovrebbero essere raccontate semmai in forma documentaristica. Ma è un altro limite concettuale ad intervenire anche in questo caso nella scelta e ce lo rivela indirettamente proprio Flavia Guidi, autrice dell’intervista citata: “sono convinta che razzismo e xenofobia uscirebbero devastati dall’incontro con le storie individuali dei soggetti contro cui si scagliano“. In un certo senso non sbaglia. Del resto, la locandina del film riassume: “La sete di futuro, il viaggio, l’emozione che conquista il cuore“.
Ecco, che la storia individuale sia rilevante o meno, che il film sia fatto bene oppure o no, conta poco. Il fine di pellicole simili, infatti, sembra essere soltanto quello di stimolare l’empatia nei confronti del migrante come persona, convinti che quest’empatia possa avere rilevanza politica. Ed ecco perché non sono documentari ma pretendono di diventare film veri e propri. Ma, così come non devono avere voce in capitolo la “xenofobia” ed il razzismo, allo stesso modo non deve averne l’empatia. Non funziona così. Si può e si deve essere empatici a livello individuale con Adil (e con chiunque altro), ma questa empatia non autorizza a cambiare di una virgola le proprie posizioni politiche sull’immigrazione. Perché diritto e giustizia servono ad equilibrare le pretese dei singoli inquadrandole in un ordinamento. Non si può agire per empatia come per odio. Mentre il ricatto morale sottinteso in questo come in altri film è questo: abbiamo il dovere di dare una possibilità agli Adil che esistono nel mondo. Ma non è così. Non può essere così. Non attraverso l’immigrazione di massa quanto meno.
Oggettivamente, la storia di Adil ci offre spunti per parlare dell’emigrazione di massa come un fenomeno tutt’altro che positivo, anche a livello esistenziale rivela lo sradicamento che accompagna una scelta del genere e le sue conseguenze (“molti nostri connazionali erano delusi ed arrabbiati, bevevano troppo, dovevamo stare attenti ai soldi”). E sono queste osservazioni tra le righe le uniche note di rilievo del film. Per il resto, c’è soltanto una storia personale, significativa se raccontata tra amici, utile se costruita e documentata nelle proporzioni che la vicenda meriterebbe, ma poco significativa e poco utile messa su così. L’ennesima prova di un cinema troppo ideologizzato.
Emmanuel Raffaele