“Repubblica“, allarmata, ne ha dato notizia con questi toni: ci sarebbero “115mila neomamme che tra il 2011 e il 2016 sono state costrette a uscire dal mercato del lavoro. Una su due ha meno 35 anni, ma la loro è una scelta obbligata dall’impossibilità di far conciliare la propria vita professionale con la cura di un figlio”. Dal 2011, secondo l’Ispettorato nazionale del Lavoro, le donne che si sono dimesse sono aumentate del 55% (peraltro, 17.681 nell’ultimo anno del governo Berlusconi e ben 27.443 nell’ultimo del governo Renzi). “Sentirsi costrette a scegliere tra l’amore di un figlio e la passione per il lavoro – spiega il quotidiano progressista – è un’umiliazione che rischia di sfociare in depressione“.
Scegliere i figli, ci spiegano, sarebbe umiliante. Del resto, “secondo il Fondo monetario internazionale l’Italia perde il 15% del proprio Pil (240 miliardi) proprio perché non riesce a incentivare la partecipazione delle donne al mercato del lavoro attraverso norme che garantiscano l’effettiva uguaglianza tra i sessi”. Così come per l’ambito assistenziale e sociale, ci abituano a pensare tutto concedendo una priorità miope all’economia: una società che si suicida e fallisce, alla fine smette anche di essere produttiva. E perché non fallisca, bisogna tenere conto soprattutto del piano sociale e, quindi, politico.
La situazione demografica è catastrofica? I numeri ci dicono che gli italiani scompariranno come popolo entro qualche decennio? Bene, facciamo entrare più immigrati, così i mercati si tranquillizzano ed il sistema pensionistico regge. Queste le (false) soluzioni proposte da una sinistra sempre più esplicitamente allineata al liberismo. Ma, d’altra parte, sul piano culturale, le risposte “di destra” difficilmente focalizzano meglio il problema. Lo ha intuito Adriano Scianca che, nel suo ultimo testo, “Contro l’eroticamente corretto“, ha giustamente evidenziato: “Secondo la vulgata reazionaria, il fondamento della società sarebbe la famiglia tradizionale o naturale […] ovvero la comunità nucleare formata da padre e madre ‘uniti nel sacro vincolo del matrimonio’, con relativa prole (in genere, non più di due pargoli) […]. I sostenitori improvvisati della “famiglia tradizionale” tutta uomo-donna-pargoli restano spiazzati di fronte all’immagine della grande famille che secondo Beventiste costituiva il modello familiare indoeuropeo. Un aggregato organico, comprendente una ventina di membri, a volte fino a settanta, addensatosi attorno a un capofamiglia secondo ruoli ben definiti: i nonni, i figli sposati, le loro mogli, i loro bambini, i figli e le figlie non sposati”.
Può sembrare un dettaglio organizzativo minore o un semplice fattore culturale, ma alla base dell’organizzazione sociale, c’è invece proprio l’organizzazione familiare e le derivazioni culturali di questa organizzazione. Di fronte a un modello come la “grande famille”, che è una vera e propria comunità autonoma di base, organizzata e con una sua forma di assistenza nei confronti dei componenti, la famiglia nucleare moderna mostra tutti i limiti dell’isolamento dell’uomo contemporaneo. Non serve coniugare in forma astratta il concetto di individualismo e sui suoi mali, quando è sufficiente il paragone concreto tra questi due modelli.
Non è detto che un modello passato debba essere riproposto identico, anzi è detto proprio il contrario, ma è altrettanto evidente che la lotta al “patriarcato”, condotta dal femminismo e dalla sinistra sfruttandone abusi e storture indubbiamente reali, in concreto, ha comportato soltanto alla rottura di quella famiglia allargata che svolgeva un ruolo essenziale nel mantenimento dei legami di solidarietà che scaturiscono spontaneamente dalla rete familiare e che però permettono all’intera società di sopravvivere come comunità. Quella rete di protezione è stata spezzata, frantumata e ciascuno è stato chiuso nella propria casa, isolato nella sua vita borghese e staccato dal resto della sua comunità, a partire dalla sua stessa famiglia.
Milano, per fare un altro esempio, lo scorso anno ha fatto registrare il record di single che vivono soli: il trend delle città all’avanguardia è questo, insieme al calo della natalità e, addirittura, della pratica sessuale conseguente ad un’estrema virtualizzazione dei rapporti. Non si tratta, infatti, del semplice dato relativo al vivere fisicamente insieme. Lo spezzettamento materiale della famiglia – dovuto anche ad un accresciuto benessere e, quindi, perfettamente comprensibile e per certi aspetti positivo – si è tradotto in un modello sociale mutato, in cui l’aspetto comunitario è stato appunto cancellato. Cosa vuol dire in parole povere? Anziani, giovani, padri, madri, figli soli, maggiormente esposti sia da un punto di vista economico e pratico che da un punto di vista morale e spirituale.
Il tasso di insicurezza, di rischio e di devianza (essere parte di una famiglia, di una stirpe, è anche uno stimolo a esserne all’altezza, a contribuire, a dare il meglio) cresce con l’indebolimento della rete sociale, con l’aumento di individui – magari deboli – isolati. Svanito l’aspetto comunitario e rimasto in gioco soltanto quello burocratico, c’è solo lo Stato ad aiutarci, con tutti i limiti e le differenze che questo comporta. Lo stato sociale, ovviamente necessario e da tutelare, nasce in fondo come risposta ai primi segni di questo mutamento. Ma se il dato economico non può essere messo in discussioni e con esso, auspicabilmente, non si può e non si deve discutere il welfare, ciò che è importante a livello culturale è conservare la consapevolezza di una rete di base che viene prima dello Stato e che parte appunto dal primo cerchio, quello dei legami familiari e che, pur facendo fronte al cambiamento delle abitudini e del sistema economico, nondimeno ha tutte le carte in regola per esser tenuto vivo, come una fiaccola da custodire. Proprio questa rete, del resto, è l’unica risposta possibile e l’unico strumento di difesa anche rispetto all’esplodere di una società priva di identità, fatta da individui e gruppi potenzialmente in lotta perenne.
La famiglia patriarcale, organizzata per forza di cose gerarchicamente, è il primo gradino di un’appartenenza sociale che, allo stesso modo, si estende poi alla “tribù” e così alla nazione, che include ciascuno dei livelli. E’ lampante, dunque, che solo un’organizzazione simile, d’impronta comunitaria e non “contrattualistica”, garantisce la stabilità e l’omogeneità necessaria allo svilupparsi di legami che sfuggono e precedono la burocrazia e che, allo stesso tempo, garantiscono la fiducia indispensabile alla pace sociale ed economica. Si è costruita una forte retorica progressista sul concetto di “xenofobia”, sulla presunta “paura di ciò che non conosciamo”, che equivarrebbe a razzismo e chiusura mentale e violenza. Ma, in realtà, posto che non è la paura il sentimento su cui porre l’accento, si tratta della naturale e più che mai razionale cautela dell’uomo e dei gruppi rispetto ai potenziali rischi di ciò che appunto non conosciamo. Non c’è niente di razzista o irrazionale nella cautela, al contrario, è irrazionale una fiducia indiscriminata che, del resto, i progressisti pretendono dallo Stato come strumento per abolire confini e istituzioni, ma non praticano ovviamente da un punto di vista personale. Date uno sguardo alle regole di ingresso per gli eco-villaggi, comunità semi-hippie che tentano di vivere in maniera autonoma rispetto al “mondo moderno”: non accolgono certo tutti, bisogna essere affidabili, accettati e bisogna che ci sia posto. Regole di base, ovvie, che rispondono ad un bisogno primordiale di appropriazione del territorio dell’uomo per esigenze irrinunciabili di difesa e di sopravvivenza, così come avviene per il domicilio, il focolare domestico. Non si fa entrare in casa propria chiunque. Non si espone ad un rischio potenziale la propria famiglia. Perché, ci si può speculare sopra quanto vogliamo, ma la fiducia che è alla base dei rapporti sociali non è una merce gratuita, si paga con la conoscenza reciproca e con l’affidabilità dimostrata. E se da un punto di vista spirituale abbiamo il dovere di essere fiduciosi nel prossimo, da un punto di vista pratico abbiamo anche il dovere di non mettere a rischio la nostra comunità per le nostre velleità buoniste.
E’ singolare – se si considera la matrice cattolica del popolo del “Family day” – che papa Francesco, in “Amoris Laetitia“, scagliandosi contro l’ideologia gender e ricordando l’importanza della famiglia, usi proprio paradigmi oggi non più europei per ribadire il concetto di cui abbiamo parlato: “In alcuni paesi, specialmente in diverse parti dell’Africa, il secolarismo non è riuscito a indebolire alcuni valori tradizionali e in ogni matrimonio si produce una forte unione tra due famiglie allargate, dove ancora si mantiene un sistema ben definito di gestione di conflitti e difficoltà“. Lo stesso Scianca, che pur attribuisce alla Chiesa o quanto meno ai suoi fedeli le responsabilità di questa visione riduttiva della famiglia e della decostruzione di ogni identità, ne “L’identità sacra” riassumeva questo concetto con la figura immediata dell’immigrato che, rispetto all’italiano, è “più vitale, più chiassoso, più conviviale, più reattivo. […] Ha una mentalità clanica ed è pronto a difendere la sua donna, il suo fratello più piccolo, la sua gente“. Stereotipo o semplice evidenza statistica, è interessante notare come si tratti delle stesse caratteristiche fino a poco tempo fa osservabili (e ancora adesso presenti in modo sensibilmente maggiore) nel Sud d’Italia, dove per antonomasia i legami familiari sono infatti più sentiti e allargati.
La prospettiva analitica proposta, dunque, ribalta anche la prospettiva delle soluzioni. Senza voler entrare nel merito dell’argomento, ma il “moralismo” intrinseco nella lotta all’aborto con matrice religiosa può poco contro una lotta tesa a ristabilire quei legami che, di fatto, pongono le basi concrete necessarie ad evitare l’aborto. La stessa questione della scarsa natalità e dei giovani che non fanno più figli non è altro che un’altra conseguenza di un modello familiare e sociale mutato, in cui il figlio diventa un problema della madre sola o della giovane coppia con pochi mezzi di sostentamento, in un contesto in cui gli standard consumistici derivanti dalla nascita e dalla crescita di un figlio sono diventati eccessivi. Ed anche la questione della donna lavoratrice e delle soluzioni su misura da adottare non può che rientrare in questo schema e non certo solamente nell’ottica di un sostegno finalizzato ad accrescere il Pil. Ma non possiamo che rifiutare l’imposizione femminista per cui uguaglianza deve voler dire per forza considerare la potenzialità materna della donna come un dettaglio e quindi sminuire culturalmente la possibilità di un modello diverso – non per forza opposto – da quello imperante della “donna in carriera” (che poi le donne hanno sempre lavorato), con tutti i vantaggi che ciò comporta proprio in termini sociali e funzionali. Forse anche questo incentiverebbe le nascite. Ma dirlo è ormai politicamente scorretto, anzi, sessista.
Emmanuel Raffaele Maraziti